Palermo e Milano non erano mai state così vicine. Era l’Italia che stava andando a pezzi ai suoi estremi, che stava sprofondando fra mazzette e colpi di pistola in meno di un mese.

Per la precisione ventiquattro giorni e ventiquattro notti, dal 17 febbraio al 12 marzo, il tempo passato dall’arresto per tangenti dell’ingegnere Mario Chiesa all’omicidio per mafia dell’europarlamentare Salvo Lima.

Una fine d’inverno agitata, sinistra, che avrebbe annunciato la spaventosa primavera del 1992. Sconvolgimenti politici e attentati, candidati eccellenti azzoppati nella corsa alla presidenza della Repubblica, misteriose veline che avvisavano «di un botto esterno, qualcosa di drammaticamente straordinario». Premonizioni.

Visto da sotto, dalla Sicilia, l’anno dove cambia tutto si è aperto sui vialetti di Mondello, il mare dei palermitani. Una mattina di sole, i sicari appostati, l’uomo più potente di Palermo che corre pesantemente verso una salvezza impossibile, i killer che gli sparano alle spalle come si fa con i traditori.

Quel pomeriggio Giovanni Falcone, ormai da dodici mesi direttore generale degli Affari penali del ministero della Giustizia, si precipita in Sicilia e sino al tramonto è seduto sul divano di una stanza del Tribunale, circondato dai colleghi che indagano sul delitto eccellente di Mondello.

Le teste che saltano

Li ascolta in silenzio, poi dice soltanto: «Da questo momento, in Italia, può succedere di tutto». Guarda a Palermo ma guarda anche a Milano. Perché c’è un incrocio fra le teste che saltano al nord e le teste che saltano al sud.

Mario Chiesa, presidente della casa di riposo Pio Albergo Trivulzio, sta trascinando negli uffici della procura milanese tutti i fedelissimi del segretario del Partito socialista Bettino Craxi.

Il cadavere di Salvo Lima sbarra la strada al Quirinale al personaggio più rappresentativo della politica italiana degli ultimi quattro decenni, Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio e ventuno volte ministro. Può succedere di tutto, aveva previsto Falcone. Tre mesi dopo, non ci sarà più neanche lui.
Milano e Palermo, Palermo e Milano, i soldi della droga che salgono per disperdersi in colossali investimenti immobiliari e le grandi imprese lombarde e del triveneto (e con loro le coop rosse emiliane-romagnole) che scendono per accaparrarsi gli appalti miliardari delle dighe e degli aeroporti, intese fra boss della cupola e famosi capitani d’industria, estorsioni brutali ed estorsioni legali.

All’inizio del 1992 un fiume di denaro, fino ad allora sotterraneo, scorre improvvisamente in superficie, attraversa l’intera penisola, eroina e lavori pubblici, con le bustarelle che fanno precipitare nel vuoto gli imprenditori e i capi dei partiti di governo mentre le pallottole spazzano via la nomenclatura siciliana prigioniera di Cosa nostra. La corruzione, nei primi mesi del 1992, comincia a fare odore di sangue.

Falcone, una mina vagante

In mezzo a Milano e a Palermo c’è Roma. E due, a Roma, sono i momenti decisivi che spiegano molto di ciò che sarebbe accaduto dopo.

Il primo è lo sbarco al ministero della Giustizia di Giovanni Falcone, chiamato a dirigere gli Affari penali dal socialista Claudio Martelli. Il secondo momento è datato 30 gennaio, giorno in cui la Cassazione sentenzia che la mafia esiste e conferma l’impianto accusatorio del maxi processo istruito proprio da Falcone.

È l'inizio della fine di una mafia antica. Sono due segnali rovinosi per l’Italia che s’ingrassa nel malaffare. Falcone agli Affari penali è una mina vagante, fa paura. È in una posizione strategica, un osservatorio privilegiato per scoprire e capire.

Dirà il giudice, alla vigilia di quella breve avventura ministeriale, in una famosa intervista: «A Palermo ho fatto il muratore e costruito una stanza, adesso che vado a Roma dovrò essere ingegnere e costruire un palazzo».

E aveva aggiunto, intuendo un futuro infido e denso di pericoli: «Mi sento come uno che si sta tuffando in un mare in tempesta». Trent’anni fa, in una stagione intesa proprio come intervallo di un anno, cade la prima Repubblica. Annientata dal risveglio della magistratura e dal furore mafioso. Avviene tutto in sorprendente sincronia, fra Palermo e Milano.

Se oggi volessimo azzardare un’ipotesi di respiro largo, di contesto, e non limitata strettamente alle pur apprezzabili risultanze giudiziarie, il movente che arma gli assassini di Capaci matura intorno alla presenza di Falcone al ministero della Giustizia. ù

Da lì, in quel 1992, il giudice era in grado di decifrare ogni movimento criminale, l’estorsione del boss e l’estorsione del ministro, intercettare le instabilità nell’associazione segreta siciliana e intravedere anche le convergenze fra due mondi, quello di sopra e quello di sotto, ancora Milano e ancora Palermo.

Nessuno ci potrà mai dimostrare quali fossero davvero i pensieri di Falcone in quella primavera, di ventriloqui in questi anni ce ne sono stati fin troppi e non sempre di sicura attendibilità, quindi meglio affidarsi ai ricordi dei testimoni oculari, i protagonisti peggiori, i mafiosi.

C’è il racconto di uno di loro, Angelo Siino, all’epoca soprannominato “il ministro dei Lavori pubblici” di Cosa nostra, morto per cause naturali nel novembre del 2021, che confessò le confidenze ricevute dal numero della 2 della Cupola Giuseppe Madonia, a proposito degli intessi mafiosi che erano sempre più contigui a quelli delle grandi aziende del nord.

Gli aveva detto Madonia: «Falcone ha capito tutto».
Una frase sfuggita di bocca al boss a commento di una dichiarazione sibillina del giudice, durante un convegno sulle infiltrazioni nell'imprenditoria: «La mafia è entrata in Borsa».

A cosa si riferiva Falcone? Perché aveva lanciato quel messaggio? Perché aveva scoperto che Totò Riina, il capo dei capi, il macellaio di Corleone, l’uomo che aveva ordinato centinaia di omicidi, di fatto era socio di Raul Gardini, uno degli industriali italiani più conosciuti al mondo.

Ogni dettaglio di questa vicenda è contenuta in migliaia di pagine giudiziarie e, soprattutto, in una sentenza passata in giudicato già nel 2001.

Ricco imprenditore agricolo di Ravenna – lo chiamavano il Contadino – Gardini prima trasformò l'azienda di famiglia in un gruppo prevalentemente industriale e poi fu il protagonista della creazione dell’Enimont, la fusione fra l’Eni e la Montedison, operazione fallita ma che nel frattempo svelò il pagamento di una maxi tangente, 150 miliardi di vecchie lire, il filone più importante delle inchieste milanesi di Tangentopoli.

Raul Gardini, socio di Totò Riina

Come e quando Raul Gardini era entrato in contatto con gli emissari di Totò Riina? Quando in Sicilia la mafia impone "il patto del tavolino”.

Basta spremere di volta in volta gli imprenditori che conquistano appalti, basta ungere questo o quell’altro politico, basta concorrenza criminale sregolata da ribassi fuori controllo.

È Cosa nostra che si fa regista dei grandi affari, decide in anticipo chi deve vincere una gara pubblica in Sicilia, garantisce una ferrea turnazione e un’equa distribuzione di profitti.

È Cosa nostra che in qualche modo prende a modello il “sistema” milanese e si promuove classe dirigente, detta le regole. Nessuno può sgarrare. È in quel frangente che i fratelli Buscemi, della famiglia di Boccadifalco, stringono accordi con i manager di Gardini.

La Calcestruzzi spa, che formalmente è di Gardini, in realtà è nelle mani dei Corleonesi. Ecco il senso di quelle parole di Giovanni Falcone. Poi Gardini, la mattina del 23 luglio dell'anno successivo, il 1993, viene trovato senza vita nella sua casa milanese di piazza Belgioioso con accanto una Walther modello Ppk calibro 7,65. Suicidio, decidono le indagini. Ma, si sa, certi suicidi si portano dietro tanti segreti.

I nuovi “referenti politici”

Poi ancora in Sicilia divampa la guerra intorno a un dossier sugli appalti che i reparti speciali dei carabinieri pretendono che trovi sbocco giudiziario, è polemica rovente, seguono scorrerie sbirresche e tentativi di insudiciare alcuni magistrati, più che un rapporto di polizia sembra una “info investigazione” dove alcuni nomi sono esaltati e altri occultati. Ancora oggi quel dossier viene spacciato come l’origine dell’uccisione di Paolo Borsellino.

Per tornare a Milano e a Palermo, cosa si muove dopo il terremoto di Tangentopoli e la morte violenta di Salvo Lima? Qualcuno, altra sincronia che avvicina l’Italia dei siciliani all’Italia dei milanesi, è freneticamente alla ricerca di nuovi “referenti politici”. Vengono accontentati tutti. Arriva Berlusconi.

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