- L’immagine delle fazioni che occupano la sede autostradale è un potente messaggio su come le fazioni del tifo estremo siano in grado esercitare a proprio piacimento le regole del disordine pubblico.
- Da anni gli scontri tra fazioni si sono spostati lontano dagli impianti di gara, secondo un codice della violenza transeunte fatto di appropriazione dello spazio e rottura momentanea delle leggi dello stato.
- L’ipotesi che gli scontri non siano stati casuali ma concordati non è irrealistica. E conferma una volta di più che dopo la pausa della pandemia il codice dello scontro duro come elemento di prestigio per il gruppo non è mai tramontato.
C’è un’immagine che dice molto più di qualsiasi analisi. Quella che ritrae la gran folla di incappucciati in movimento nella corsia nord dell’A1, all’altezza dell’autogrill di Badia al Pino, luogo degli incidenti tra fazioni ultras della Roma e del Napoli avvenuti nella mattina di domenica.
Gli incappucciati occupano la sede autostradale come se fosse una piazza delle nostre città, o un’area industriale dismessa di periferia, e lì impongono il loro ordine. Che non è fatto soltanto di traffico automobilistico bloccato, di viaggiatori terrorizzati e di agenti di polizia chiaramente in sotto-numero per affrontare l’orda.
Il loro ordine è una configurazione mobile che si sposta a proprio piacimento anche verso spazi inosabili e lì impone il proprio governo. Fatto di regole del disordine pubblico. In tal senso, quell’immagine che vede due fazioni contrapposte in uno spazio dove le persone non dovrebbero minimamente transitare comunica un messaggio potente e propone un sotto-testo che bisognerebbe non ignorare.
Il sotto-testo dice che, al di là dell’evidenza fatta di uno scontro fra due fazioni, c’è una condivisione di fondo che porta le fazioni stesse a essere un’unica configurazione sociale. Che si forma per imporre le regole del disordine pubblico e ci riesce con facilità estrema, senza che il controllo dello stato riesca a fare argine se non ex post tramite repressione.
Monopolio della violenza di fatto
Ne deriva un monito potentissimo: da una parte c’è un monopolio nominale dell’esercizio di violenza legittima, che come da formula classica è conferito alle strutture d’ordine dello stato; dall’altra parte c’è un monopolio auto-legittimato dell’esercizio di violenza situazionale, davanti al quale lo stato rimane perennemente all’inseguimento e senza un’apparente capacità di contrasto e prevenzione.
Come sempre, dopo che la violenza dei gruppi del tifo calcistico radicale determina un grave fatto di cronaca si succedono le dichiarazioni che si appellano a un inasprimento delle norme nella direzione “legge e ordine”.
Fra esse si segnalano quelle, immancabili, del ministro dell’Interno ombra, Matteo Salvini. Cioè colui che nel 2018 si faceva amabilmente ritrarre in foto col capo ultras milanista Luca Lucci, già allora condannato a quattro anni e sei mesi di reclusione e a cinque anni di Daspo per una violenta aggressione avvenuta nel 2009 ai danni di un tifoso interista (che tre anni dopo si sarebbe suicidato), e a giugno scorso destinatario di una nuova condanna a sette anni di reclusione per traffico di stupefacenti.
Ieri Salvini ha reclamato il Daspo a vita per i protagonisti degli scontri. Misura tanto inapplicabile quanto inutile. Inapplicabile perché con la normativa vigente non si può comminare un ergastolo da stadio, dato che al massimo è possibile interdire la frequentazione per dieci anni la frequentazione degli impianti e soltanto in caso di recidiva. Ma soprattutto, misura inutile perché i fatti di domenica hanno ribadito una verità evidente (tranne che a Salvini) ormai da almeno un quindicennio: non sono certo gli stadi i luoghi dello scontro tra fazioni del tifo radicale.
Anzi, da quel punto di vista gli stadi sono i luoghi più sicuri, attraversati da violenze di altro tipo: verbale, estemporanea fra spettatori singoli o fra gli spettatori stessi e gli attori dello spettacolo calcistico, o fra tifosi e forze di polizia, ma non da quella tra tifoserie opposte.
Da tempo gli scontri si sono spostati altrove, con cerchie del distanziamento territoriale che si sono progressivamente allontanate anche dai dintorni degli stadi, ormai abbondantemente presidiati.
Per questo gli scontri si spostano talvolta nelle vie delle città, ma più spesso nelle aree periferiche o in prossimità delle vie di accesso dalle grandi arterie della mobilità. Si tratta sovente di violenza a bassa intensità, fatta di scontri mordi e fuggi che nella maggior parte dei casi non conquistano spazio in cronaca. Gli autogrill sono già da tempo un luogo molto sensibile, come del resto testimonia la triste storia dell’area di servizio di Badia al Pino, che prima degli scontri di domenica era stata teatro dell’omicidio del tifoso laziale Gabriele Sandri.
Vedersi per sprangarsi
Quel che è più, a destare preoccupazione è la prospettiva che gli scontri siano cercati e pianificati.
Si tratta di un’ipotesi che nelle ore successive alla grande paura della scorsa domenica ha preso a circolare con una certa insistenza. Le indagini daranno risposta a questo interrogativo, ma intanto si può dire che l’ipotesi non è affatto sballata.
Le fazioni radicali del tifo hanno nella ricerca dello scontro un tratto identitario molto forte. E il ritorno alla piena fruibilità degli stadi ha riaperto anche i canali della mobilità e della violenza transeunte.
Si riafferma così un codice comportamentale di gruppo che produce curriculum e alimenta l’aneddotica, in un contesto dove la rispettabilità si conquista con la durezza dei comportamenti, oltreché con la capacità di imporre, almeno momentaneamente, le proprie regole rispetto alla legge dello stato. Come, per esempio, decidere se una partita debba essere giocata o no. In Italia è già successo due volte all’Olimpico di Roma: il famoso “derby del bambino morto” e poi la finale di Coppa Italia del 2014 fra Napoli e Fiorentina. Forse ce ne si è già dimenticati.
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