- Dopo due mesi durissimi, la Rai targata Meloni sembra pronta a partire. I palinsesti sono quasi chiusi, le squadre formate e i problemi risolti.
- Ma la via dei sovranisti nel servizio pubblico è in salita: la programmazione esce impoverita dalle manovre della destra, i tanti esterni pesano sul budget che è pure messo sotto attacco dal desiderio di Salvini di tagliare il canone.
- In questo contesto, la speranza dell’ideologo Rossi è quella di creare la narrazione sovranista che Meloni si aspetta da lui e capitalizzare quando la prossima primavera si tratterà di scegliere il nuovo amministratore delegato.
«Non pensavo sarebbe stato così difficile». La frase è di un dirigente di primo piano della nuova Rai di stampo sovranista, Telemeloni l’hanno rinominata. Metterla in piedi in due mesi non è stato facile, neanche per chi della squadra aveva già familiarità con l’azienda, figurarsi per chi programmi non ne ha mai fatti e arriva da società collegate al servizio pubblico, come la nuova doppia punta alla guida della Rai per volere di Giorgia Meloni, composta da Roberto Sergio e Giampaolo Rossi.
Il risultato, alla fine, è stato raggiunto, la Rai è stata melonizzata. Perché chi non è andato via di sua sponte – sono stati tanti già nelle prime settimane, ma il telemercato di autori, redattori e inviati è lontano dalla conclusione – è stato allontanato, perfino fisicamente, in qualche caso. In azienda, hanno assistito perplessi. L’occupazione non è cosa nuova in Rai, ma la misura della lottizzazione della destra ha superato ogni precedente. Sia rispetto ai tempi del governo gialloverde Conte I che nel confronto con i governi Berlusconi. Anche se, ovviamente, Giorgia Meloni non ha tre televisioni a propria disposizione.
A colpire, nei corridoi di viale Mazzini e Saxa Rubra, è stato soprattutto il rancore e la voglia di rivalsa dei nuovi padroni: un sentimento che nella narrazione sovranista è un riscatto meritato dopo la cronica penalizzazione di giornalisti e conduttori di destra in Rai. Peccato sia un racconto che non corrisponde a realtà. E per averne prova, basta guardare alle carriere di tre punti di riferimento della destra in Rai.
Petrecca, Sangiuliano & co.
Paolo Petrecca, direttore di RaiNews, per esempio, è diventato caporedattore politico nel 2017, sotto la direzione di Antonio Di Bella e durante il governo Gentiloni. Gennaro Sangiuliano, oggi ministro della Cultura, è stato nominato vicedirettore del Tg1 nel 2009 e direttore del Tg2 nel 2018: momenti in cui la destra era al potere, ma nessun governo di sinistra ha poi messo bocca sui suoi incarichi. Stesso discorso per Nicola Rao: oggi direttore della comunicazione della Rai (e a lungo in ballo come nome alternativo a Gian Marco Chiocci al Tg1), è stato responsabile della redazione del Lazio della TgR dal 2010 al 2017. Da lì è passato alla vicedirezione della TgR fino al 2021, per poi traslocare alla vicedirezione del Tg1 e, nel 2022, alla direzione del Tg2. Nessuno dei tre ha dovuto svolgere mansioni da Cenerentola, insomma.
Arrivati al potere, però, i meloniani non hanno avuto lo stesso riguardo per i loro avversari politici. Anzi, è partita una campagna alla conquista di più poltrone possibili, nelle direzioni come nei palinsesti. Arrivando a creare spazi utili soltanto a rafforzare la presa – già salda – della destra sul servizio pubblico, come il numero sempre più alto di vicedirettori (in Radio sono arrivati addirittura a otto, anche se da viale Mazzini ci tengono a dire che ai tempi della direzione di Antonio Caprarica erano altrettanti), oppure ritoccando la durata dei programmi in modo da trovare strisce da assegnare a volti e penne amici.
Senza troppa compassione per chi ha dovuto fare le valigie e magari, a prescindere dall’orientamento politico, poteva fornire una professionalità utile all’azienda. Una decisione che si è poi rivelata un boomerang per Sergio e Rossi.
Fare fuori chi conosceva a fondo i meccanismi che mandano avanti tv e radio di stato ha lasciato i vertici soli anche nella stesura dei nuovi piani editoriali. E, potendo contare su pochissimi interlocutori interni disposti a dare una mano ai due meloniani, Rossi ha deciso di rivolgersi a consulenti esterni, ovviamente retribuiti a dovere e, mormora qualcuno, non esattamente di comprovata fede meloniana.
Scommesse rischiose
Da viale Mazzini sottolineano che mettere in piedi i palinsesti autunnali in poche settimane è stata impresa quasi impossibile, ma si è riusciti ad arrivare in fondo, alla riunione del Consiglio d’amministrazione di questo martedì, che chiuderà anche la trattativa sulle squadre dei direttori di testata e di genere. I nuovi dirigenti si danno pacche sulle spalle, alla fine è andato quasi tutto come doveva.
Gli uomini di Meloni sono riusciti anche a riempire i buchi che si sono aperti con le defezioni di chi non voleva più lavorare in quel contesto. Come è successo nel caso di Bianca Berlinguer, migrata verso Mediaset a poche ore dalla presentazione dei palinsesti. Per farlo, le prime file della Rai sovranista non hanno esitato ad aprire parecchie trattative anche fuori dai confini dell’azienda. Ma i volti non Rai che i sovranisti di viale Mazzini desiderano di più restano – per il momento – sogni irrealizzati.
Come quello di Nicola Porro. A cui, nonostante i tempi strettissimi per chiudere la programmazione autunnale erano state dedicate ben due settimane di trattativa. Tutto in fumo, alla fine il giornalista, che può vantare un legame solido sia con Meloni che con Matteo Salvini (e che compariva, non è chiaro a che titolo, nel video dell’incontro tra il ministro degli Esteri Antonio Tajani e l’imprenditore Elon Musk) ha deciso di restare a Mediaset per ottenere, oltre al suo programma in prima serata, anche la conduzione dell’access time dei giorni feriali. La decisione di chiudere la trattativa per quello che, nei sogni della Lega, sarebbe dovuto diventare un “anti-Report” ha lasciato l’amaro in bocca al settimo piano di viale Mazzini, dove si cita spesso l’incapacità di competere economicamente con le reti private per conduttori e giornalisti. «Gli stipendi Rai devono rispettare un tetto a cui altri non sono vincolati. Certo, bisogna valutare per chi vale la pena spenderli».
Massimo Giletti
Uscito di scena Porro, l’altro nome su cui la Rai vorrebbe mostrarsi competitiva è quello di Massimo Giletti. Ma è ancora presto: troppo incerta la situazione che avvicina il conduttore di Non è l’arena alla vicenda dell’indagine della procura di Firenze.
Ma da agosto, fanno sapere, l’intenzione di viale Mazzini è quella di esplorare la disponibilità del giornalista per qualche evento singolo, in prima serata. Più avanti, è il ragionamento, se non dovessero esserci rischi di sorta, per il conduttore tornerebbe in ballo la prima serata del giovedì di Rai 2, lo spazio che la rete dedica tradizionalmente all’approfondimento e che fu di Michele Santoro.
Non si vuole rischiare un altro Facci, che ha scottato i vertici aziendali nelle ultime settimane. C’è chi non nasconde una certa incomprensione per quella scelta e forse un filo di sollievo nel sapere che l’imprevedibilità dell’editorialista di Libero è stata disinnescata.
Quel nome, calato dall’alto, avrebbe potuto provocare ulteriori imbarazzi, nonostante nella pianificazione del programma siano state prese una serie di precauzioni per mettere al riparo il servizio pubblico da eventuali passi falsi di Facci.
Ma la verità è che se i direttori sperano di delegare la messa a terra dei programmi ideati in queste settimane ai loro vice freschi di nomina, la nuova stagione si preannuncia rischiosa su tanti piani.
Già il palinsesto estivo, per certi versi, non sta dando i risultati sperati: la settimana scorsa, per la prima volta nella storia della sfida tra i due programmi del mattino, Omnibus di La7 ha scavalcato Agorà, su Rai 3, in termini di share. Ma i vertici rischiano di andare incontro a un autunno caldo nei rapporti con le redazioni.
Per ribilanciare gli investimenti in nomi esterni all’azienda, infatti, la Rai, che già si trascina dietro conti in profondo rosso, mette in conto di compensare altrove. Vero è che con la chiusura di tanti programmi molti collaboratori potranno essere sostituiti da figure più in linea con il nuovo corso, ma Sergio e Rossi hanno comunque intenzione di sbloccare le immatricolazioni di esterni, un modo per portare in azienda persone di fiducia.
Ma il problema dei soldi rimane. Un discorso che riguarda soprattutto la testata giornalistica radiofonica, dove i circa 200 giornalisti ora in mano al soldato di Salvini, Francesco Pionati, rischiano di vedersi meno valorizzati a favore di numerosi (e costosi) colleghi esterni all’azienda e potrebbero dover rinunciare alla possibilità di lavorare in trasferta. Stesso discorso per i programmi di approfondimento, dove il timore di molti è che, per tagliare i costi, si intervenga drasticamente sui contributi che oggi arrivano da fuori dalla redazione.
«Duemila giornalisti sono tanti, forse troppi» è una frase che si sente ripetere spesso ai piani alti di viale Mazzini, e il clima che si è creato nei primi mesi di Telemeloni riflette i dubbi che circolano sul valore delle testate. Certo, l’antipatia per la categoria che condividono sia Rossi sia Sergio non aiuta.
Il canone
Resta poi la questione del canone. Per Salvini, ispirato dal suo responsabile Editoria Alessandro Morelli, la rimozione dalla bolletta (o almeno un ritocco al ribasso) resta una delle bandiere da sventolare in vista delle elezioni europee per superare a destra Meloni. Anche se per il momento Fratelli d’Italia è riuscita a contenere le ambizioni della Lega relegando la questione a un tavolo istituto al ministero dell’Impresa.
Per avere un’ulteriore assicurazione sui flussi di denaro, Rossi e Sergio si sono però anche tutelati inserendo un articolo che difende la Rai nel nuovo contratto di servizio, in modo da garantire all’azienda i fondi necessari per realizzare tutte le attività previste dal perimetro attuale.
Il telecomando non serve
Se chiudere i palinsesti in poche settimane è stata un’impresa, figurarsi farlo mentre si stende il manifesto di una nuova narrazione per il paese. Ma Rossi è riuscito a distillare la sua visione del mondo – quella contenuta anche nel suo storico blog – nel contratto di servizio, dal quale sono stati cancellati tutti i riferimenti ad accoglienza e giornalismo d’inchiesta, introducendo piuttosto la celebrazione di sport e «gusto italico». L’impianto del documento dà una prima idea della Rai che verrà. E, a dispetto dei proclami, ha poco a che fare con il pluralismo.
L’azienda esce impoverita dall’intervento dei meloniani: la spartizione politica, che ha infarcito i palinsesti dei volti più cari alla destra, ha stravolto in maniera drastica anche delle reti tradizionalmente punto di riferimento dell’elettorato di sinistra, come Rai 3 e Radio 1. Una prova di «pluralismo», nell’interpretazione meloniana del termine, sempre in virtù di un’“occupazione” della sinistra da compensare. Con il rischio che la fetta di telespettatori che sceglieva la Rai per seguire programmi come quelli di Fabio Fazio, Lucia Annunziata e Berlinguer, alla fine, si rivolga alla concorrenza, con la certezza che le tre principali reti Rai – complice anche la riforma Renzi, che ha cancellato le direzioni verticali in favore di quelle orizzontali – hanno ormai rinunciato alle proprie identità.
La sinistra, in Rai, sopravvive soltanto dove la destra non è ancora riuscita a intervenire. Marco Damilano resta un altro anno grazie alla protezione che gli garantisce il suo contratto, Serena Bortone copre il suo spazio nel fine settimana, mentre Monica Giandotti si occuperà di giovani (ma forse per lei si aprirà uno spazio nel lunedì sera di Rai 3). Ma quel che resta di “Telekabul” è tutto qui.
Anche nella partita delle vicedirezioni di rete e di testata, che a Saxa Rubra vengono considerate, a torto o a ragione, le briciole che la maggioranza di turno lascia alle opposizioni, il Pd rischia di non avere le soddisfazioni che si aspettava. Basta guardare RaiNews. Sotto Petrecca – forse non il più alto campione del pluralismo, considerato l’intervento drastico sul pezzo di una redattrice a proposito del caso La Russa – la sinistra è sparita, con l’uscita di scena dei vicedirettori di area, tra cui Diego Antonelli, al quale si deve la realizzazione del nuovo portale web della Rai.
Gemelli diversi
L’assalto alla diligenza che ha caratterizzato i primi mesi della destra al timone della Rai emerge anche in questa partita. Sergio e Rossi sono riusciti a presidiare persino le seconde file della dirigenza di viale Mazzini, sintomo evidente del complesso di accerchiamento che vivono. I due combattono uniti verso gli attacchi che arrivano dalle opposizioni, anche se per la verità non sono tantissimi, visto che in Consiglio d’amministrazione possono contare sulla “non opposizione” del consigliere di area M5s, Alessandro di Majo. “Ammorbidito” con una serie di concessioni ai Cinque stelle. Ma non è detto che Sergio e Rossi continuino a marciare compatti.
C’è un dettaglio che ha colpito chi assisteva alla presentazione dei palinsesti autunnali andata in scena al centro di produzione di Napoli, che quest’anno celebra il suo sessantesimo compleanno. Il sette luglio, alla conferenza stampa condotta dal capo ufficio stampa Fabrizio Casinelli c’erano inizialmente cinque poltroncine: dopo che si sono seduti Sergio, il direttore della distribuzione, Stefano Coletta, la direttrice di RaiPlay, Elena Capparelli, e Gian Paolo Tagliavia, ad di Rai Pubblicità, una è rimasta vuota. Era destinata al dg Rossi che però, all’ultimo, ha preferito salire sul palco soltanto quando chiamato in causa dalle domande dei giornalisti.
Una decisione che mostra quali siano i rapporti di forza nella diarchia che, dicono i più generosi, rallenta ulteriormente un’azienda già di per sé elefantiaca. Sergio in prima fila e Rossi nelle retrovie. Con il risultato che spesso i due abbiano idee molto difficili da conciliare.
L’idealista contro il pragmatico, come ha mostrato il caso Facci. Sergio lo avrebbe voluto liquidare fin da subito, dopo le sue parole inaccettabili sul caso La Russa, mentre Rossi ha voluto tenere il punto, almeno per qualche giorno. Alla fine, però, l’ad ha avuto la meglio. E forse, a posteriori, ha fatto un favore alla maggioranza: il precedente può diventare un’arma nelle mani della destra, che ha promesso di portare in commissione di Vigilanza il caso di Roberto Saviano, che ha dato della «bastarda» alla premier e del «ministro della Mala Vita» a Salvini.
La prossima scadenza dei due dioscuri meloniani è maggio 2024. Il piano originario prevede che la prossima primavera Sergio e Rossi si scambino i posti, in modo da garantire all’ideologo della presidente del Consiglio un intero mandato per portare a termine la trasformazione del servizio pubblico in uno strumento a sua disposizione.
Sergio si sta mostrando però meno mansueto di quanto la destra si aspettasse e ha approfittato del suo ruolo per risolvere qualche conto in sospeso o proteggere chi voleva salvare dalla scure della destra. Anche nella gestione delle prime crisi, alla fine ha preso lui in mano la situazione, consapevole del fatto che la faccia da mettere sulle decisioni della nuova Rai era sempre la sua. Il rischio, dal punto di vista di Rossi, è quello di far accumulare troppi crediti con la maggioranza al vecchio democristiano sull’orlo della pensione, che potrebbe essere interessato a qualche poltrona dell’universo Rai (come quella di Rai Cinema o quella di Radiorai) al termine dell’incarico che ha accettato «per senso di responsabilità», come ha detto lui stesso.
L’altra partita che deve giocarsi Rossi è quella del suo rapporto personale con la presidente del Consiglio. Che, attualmente, è altalenante. Non è l’unico, considerata l’ambizione della premier di avere sempre tutto sotto controllo. Un atteggiamento che lascia a chi collabora con lei pochissime possibilità di sbagliare.
Le prime settimane in Rai però non sono andate benissimo e Rossi, che pretende di essere l’unico ufficiale di collegamento tra palazzo Chigi e viale Mazzini ed esclude l’ad dai suoi confronti con Meloni, ha dovuto prendersi tutte le responsabilità del caso.
Certo, ci sono rapporti personali della premier che sfuggono al controllo dell’ideologo accentratore, come quello con Bruno Vespa e Chiocci, ma a livello dirigenziale è per lui essenziale rimanere l’uomo di Meloni in Rai. Per poter aspirare, più avanti nella legislatura, ad assaporare gli effetti della riforma della governance che nei ragionamenti della destra sparsa tra parlamento e viale Mazzini rimbalza già da un po’. L’intenzione è quella di portare la durata del mandato dell’ad almeno a quattro anni. E rendere così la Rai «di tutti», come recita il nuovo slogan aziendale, ma soprattutto di Rossi.
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