- Nel corso di due anni e mezzo di pandemia, molte voci si sono sollevate con insistenza da parte della scienza, della politica, delle organizzazioni non governative, perché i vaccini contro SARS-CoV-2 raggiungessero il prima possibile tutto il mondo.
- A giugno 2022, invece, solo il 18 per cento degli abitanti dei paesi a basso reddito ha ricevuto almeno una dose. Come denuncia l’Oms, quasi un miliardo di persone nelle aree più povere del mondo non è ancora vaccinato.
- Il virus è stato più veloce di noi. Nella nostra miope disattenzione, che ci impediva di guardare oltre il nostro naso, convinti di essere i più colpiti al mondo, molte popolazioni povere sono state flagellate dalla pandemia ben più di quel che è accaduto in Europa.
Nel corso di due anni e mezzo di pandemia, molte voci si sono sollevate con insistenza da parte della scienza, della politica, delle organizzazioni non governative, perché i vaccini contro Sars-CoV-2 raggiungessero il prima possibile tutto il mondo.
A giugno 2022, invece, solo il 18 per cento degli abitanti dei paesi a basso reddito ha ricevuto almeno una dose. Come denuncia l’Organizzazione mondiale della sanità, quasi un miliardo di persone nelle aree più povere del mondo non è ancora vaccinato, mentre i paesi con una copertura che raggiunge o supera l’obiettivo di almeno il 70 per cento della popolazione sono meno di 60, quasi tutti ad alto reddito.
Le ragioni di tanta urgenza sono sotto gli occhi di tutti: oltre a evidenti criteri di giustizia, si trattava di rallentare la corsa del virus per cercare di evitare che si selezionassero varianti più contagiose, pericolose, capaci di sfuggire all’immunità indotta dai vaccini stessi o dalla malattia.
Oggi, i vaccini attuali sono ancora utili per ridurre il rischio di forme gravi, ricoveri e decessi, ma l’effetto sul rischio di contagiarsi e contagiare, se ancora c’è, è minimo.
Quando invece ancora circolavano le varianti iniziali, di cui i vaccini bloccavano in larga misura la trasmissione, una campagna di vaccinazione veramente globale avrebbe potuto ridurre il rischio che emergessero in successione alfa, beta, gamma, delta e infine la contagiosissima Omicron, con tutte le sue sottovarianti. Non ce l’abbiamo fatta.
Lontano dagli occhi
Il virus è stato più veloce di noi. Nella nostra miope disattenzione, che ci impediva di guardare oltre il nostro naso, convinti di essere i più colpiti al mondo, molte popolazioni povere sono state flagellate dalla pandemia ben più di quel che è accaduto in Europa.
Sebbene il triste record di vittime totali, oltre un milione, si sia registrato negli Stati Uniti, più di un morto su dieci, tra tutti quelli registrati a oggi dall’Organizzazione mondiale della sanità, si è avuto in Brasile e poco meno, ma sempre più di mezzo milione, in India.
I primi paesi ad alto reddito a comparire nella classifica assoluta dei decessi sono Regno Unito e Italia, rispettivamente al settimo e ottavo posto. Ma se si tiene conto della popolazione di ogni Stato, nella classifica dei decessi per milione di abitanti, troviamo prima tutti paesi a basso o medio reddito: dal Perù a una lunga serie di Paesi dell’Est europeo a basso tasso di copertura, inframezzati solo da San Marino che, come parte di loro, si è affidata a un vaccino non autorizzato dalle autorità occidentali.
Il primo paese ricco sono di nuovo gli Stati Uniti, anche in questa classifica, al diciassettesimo posto, seguito dall’Italia al ventiseiesimo, poco sopra il Regno unito.
Che cosa ci dicono questi dati? Prima di tutto che i poveri del mondo hanno pagato un caro prezzo alla pandemia, probabilmente anche superiore a quello che emerge da queste classifiche, dal momento che ai sistemi di sorveglianza epidemiologica in molte aree depresse sfuggono probabilmente moltissimi casi e vittime.
A questo fenomeno, oltre che alla bassa età media della popolazione, si deve probabilmente il basso carico di decessi registrato in Africa rispetto ad altre parti del mondo.
Già in Sudafrica, dove il sistema è più avanzato, i morti di covid-19 per milione di abitanti equivalgono circa a quelli della Germania, la cui popolazione è in media molto più anziana. Se guardiamo alla mortalità in eccesso, poi, considerando i morti per qualunque causa nel 2020, in Sudafrica questi sono stati circa 20mila, il doppio di quella che ci si poteva attendere rispetto alla media degli anni precedenti.
I profitti delle aziende
Le aziende, intanto, contano profitti record. Pfizer, che con la tedesca BioNtech detiene il brevetto del vaccino Comirnaty, ha raddoppiato i profitti netti nel 2021 rispetto all’anno precedente, avvicinandosi ai 22 miliardi di dollari. Al vaccino, di cui ha già prodotto e venduto più di 3 miliardi di dosi, si affianca da qualche mese l’antivirale paxlovid.
Secondo le previsioni, queste due voci da sole porteranno a Pfizer nel 2022 un fatturato intorno ai 54 miliardi di dollari, quasi la metà del totale. Se infatti sui vaccini c’è un po’ di concorrenza, come antivirale paxlovid è uno dei pochi trattamenti che sembrano ancora efficaci nel trattamento precoce contro omicron.
Come molnupiravir, di Merck, ha anche il vantaggio di poter essere preso per bocca. Richiede invece un’infusione in vena l’altro antivirale che sembra conservare una certa utilità anche nei confronti delle ultime varianti, remdesivir, utilizzato inizialmente per i pazienti ricoverati in ospedale con forme gravi di covid-19, e che oggi sembra invece funzionare meglio nei soggetti a rischio nei primi giorni di malattia, a casa, prima che si aggravino.
Sebbene la meno pratica modalità di somministrazione ne riduca la diffusione, remdesivir ha comunque contribuito a garantire in un solo anno un incremento dei profitti di quasi il 5.000 per cento all’azienda che lo produce, Gilead, già nota per gli incassi record ottenuti con sofosbuvir, il primo antivirale contro l’epatite C.
Da un lato, va riconosciuto il giusto merito a queste società che hanno scommesso su prodotti innovativi, nonostante la concreta possibilità che poi alla prova dei fatti si rivelassero non abbastanza efficaci o sicuri. Il rischio di impresa non era da poco.
È andata male, finora, a un colosso con una lunga e affidabile tradizione nello sviluppo e produzione dei vaccini come la francese Sanofi, e non è stata più fortunata la tedesca Curevac, che pure aveva puntato sull’innovativa tecnologia a mRna come chi si è trovato in cima al podio. Bisogna ammettere che grazie al successo di Pfizer, Moderna, ma anche Astrazeneca e Johnson&Johnson, si sono salvate centinaia di migliaia, anzi, milioni di vite in tutto il mondo.
Né, in un libero mercato, si può negare a imprese private e ai loro azionisti il diritto di trarre giusto profitto da una operazione rivelatasi vincente e da cui tutti hanno tratto vantaggio. Altrimenti in futuro rischieremmo di trovarci sguarniti, senza nessuno più disposto a investire in vista di una prossima, sempre possibile, minaccia.
Davanti a questi enormi introiti, che superano ampiamente investimenti e costi, qualche domanda tuttavia si pone. Prima di tutto è bene ricordare che la ricerca di base a cui si sono appoggiati gli scienziati che hanno ottenuto questi farmaci e vaccini ha avuto luogo per decenni nelle università e nei laboratori pubblici, a spese dei contribuenti.
Anche arrivata la pandemia, poi, nel momento dello sviluppo e della sperimentazione di questi prodotti, si stima che, a gennaio 2021, i governi di tutto il mondo avessero versato oltre 90 miliardi di dollari sui conti delle aziende perché fornissero al più presto delle risposte.
Tutte insieme Moderna, BioNtech e Pfizer avrebbero ricevuto almeno 8 miliardi di denaro pubblico, di cui in qualche modo si chiede loro di rendere conto, sebbene Pfizer non abbia accettato i finanziamenti della trumpiana Operation Warp Speed.
Inoltre, le nuove tecnologie messe a punto col supporto di governi, agenzie, opinione pubblica durante la crisi, permetteranno a chi le detiene di sviluppare nuovi trattamenti nei confronti di altre malattie, prolungando ed espandendo in maniera che a oggi non possiamo prevedere il ritorno economico dello sforzo iniziale.
Infine, alla luce degli ultimi dati scientifici che mostrano, dopo pochi mesi da ogni somministrazione, un importante calo della protezione contro Covid- 19, è ragionevole pensare che le campagne vaccinali andranno ripetute periodicamente. Le aziende che hanno in portfolio vaccini efficaci, quindi, non avranno solo vinto la lotteria iniziale, ma si saranno garantite una rendita perenne.
Si poteva fare di più?
Purtroppo i vaccini attuali sono molto meno efficaci nel rallentare la diffusione del contagio delle nuove varianti di quanto non facessero con quelle originarie. Ma proprio per questo ci si chiede se forse, vaccinando tutto il mondo fin dall’inizio, e riducendo così la circolazione del virus su tutto il pianeta, non avremmo potuto evitare la loro selezione. È lecito quindi chiedersi se queste aziende avrebbero potuto o dovuto fare di più.
Fin dall’inizio si è detto che la pandemia riguardava l’intero pianeta, e che non sarebbe potuta finire finché tutti, o almeno una larga maggioranza, dei suoi abitanti non fosse stato protetto dall’infezione. Mentre questo obiettivo era chiaro a tutti, e a parole da tutti condiviso, non altrettanto chiare e univoche sembravano le vie per raggiungerlo.
Per parecchi mesi, anche nei paesi più ricchi, disposti a spendere qualunque cifra per poter rimettere in libera circolazione persone ed economia, il collo di bottiglia delle campagne vaccinali sono state le forniture di dosi sufficienti. Va infatti ricordato che al via erano in lizza parecchi candidati, alcuni dei quali hanno dovuto abbandonare la competizione.
I quattro contendenti che hanno passato per primi il filtro delle agenzie regolatorie occidentali, due con i loro prodotti a mRna (Pfizer e Moderna), due con quelli a vettore adenovirale (Astrazeneca e Johnson& Johnson) hanno dovuto sopperire anche alla produzione delle centinaia di milioni di dosi che erano state prenotate ad altri fornitori, da Sanofi a Curevac.
Non è stato facile. I vaccini a mRna e a vettore adenovirale erano fino ad allora stati creati solo in quantità relativamente piccole, sufficienti per la sperimentazione. I processi industriali per la loro produzione su una scala mai vista prima dovevano essere messi a punto tenendo conto della loro assoluta novità rispetto ai vaccini tradizionali, che già richiedono procedure e controlli di parecchi ordini di grandezza più complessi e delicati di quelli richiesti per la sintesi dei farmaci.
Si ricorderanno i ritardi nelle consegne, i lotti ritirati all’origine perché non corrispondevano agli standard, la carenza di materie prime, dalle componenti chimiche alle fialette di vetro, la difficoltà a raggiungere in tutti gli impianti lo stesso livello di qualità e produttività.
Anche rispondere alle richieste dei clienti più facoltosi non è stato facile. Né, in quella situazione, si poteva facilmente delegare ad altri la procedura, perché le molte materie prime necessarie, alcune delle quali a loro volta provenienti da pochi fornitori, scarseggiavano; le aziende per prime dovevano perfezionare i processi; le persone che in tutto il mondo avevano il know-how sufficiente a risolvere gli ostacoli alla produzione erano contate.
Non si potevano inviare in Africa, in Asia o Sudamerica a mettere in piedi nuovi impianti prima che quelli già esistenti funzionassero a pieno regime. Il rischio era che i vaccini non arrivassero a nessuno, o che qualche impurità sfuggisse ai controlli, magari creando reazioni avverse gravi che avrebbero bloccato le campagne vaccinali in tutto il mondo.
Sicuramente si sarebbe potuto fare di più, da parte di tutti, ma è difficile credere che, in pratica, alla sorprendente impresa di arrivare a produrre i nuovi vaccini in meno di un anno, si potesse aggiungere il miracolo di superare in così breve tempo anche gli ostacoli che da secoli impediscono una distribuzione equa delle opportunità tra i popoli.
I brevetti non bastano
Non era, e non è, solo questione di soldi e di brevetti. Pfizer per esempio dichiara di aver venduto Comirnaty ai Paesi a basso reddito a prezzo di costo (circa 7 dollari, contro i 20 circa di Stati Uniti ed Europa), sebbene sia più che verosimile che, data la scarsità dei prodotti, abbia privilegiato i paesi che pagavano di più.
AstraZeneca ha venduto a prezzo di costo, da 2 a 4 dollari, il vaccino a vettore adenovirale messo a punto dall’Università di Oxford e, fin dai primi mesi della campagna vaccinale, ha ceduto volontariamente la licenza per la realizzazione del prodotto a diverse società dal Messico al Brasile al Serum Institute indiano.
A marzo 2021 i siti di produzione del vaccino di Astrazeneca noto in Europa come Vaxevria erano 25 in 15 Paesi, dove il vaccino è stato riprodotto e registrato con nomi diversi (il più comune è Covishield) per rifornire i diversi continenti. Sia per ragioni economiche, sia di praticità - dal momento che il prodotto si conserva a normali temperature di frigorifero - questo vaccino è stato la prima scelta di molti Paesi a medio-basso reddito.
Era invece più complicato, oltre che molto più costoso, pensare di procurarsi vaccini a mRna, che hanno esigenze di conservazione e trasporto molto più stringenti. Moderna, che ha realizzato il suo in stretta collaborazione con gli scienziati del National Institutes of Health del governo statunitense, ha però dichiarato fin dall’inizio che non si sarebbe rivalsa su chi lo avesse copiato e, dopo mesi di braccio di ferro con i partner pubblici per rivendicare diritti esclusivi sulla proprietà intellettuale sottesa al suo Spikevax, ha per il momento deciso di non procedere oltre. Vero che comunque potrebbe sempre cambiare idea.
Le procedure previste per la cosiddetta “licenza obbligatoria”, utilizzata in passato per aggirare la proprietà intellettuale di antivirali contro Hiv e farmaci oncologici, sono tuttavia difficilmente applicabili in questo caso. Non si ribadirà mai a sufficienza infatti quanto la produzione industriale di un vaccino sia più complessa rispetto a un farmaco.
Se per produrre in maniera autonoma un medicinale contro il cancro basta portare avanti la singola pratica richiesta per una molecola, quando si parla di vaccini occorrerebbe ottenere la licenza per centinaia di sostanze e procedure, brevettate da dozzine di diversi fornitori da molti Paesi diversi.
È stato quindi proposto all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) che le aziende dei paesi a medio e basso reddito possano chiedere un’unica licenza per il vaccino nel suo complesso, soluzione che potrebbe consentire per esempio all’azienda sudafricana Afrigen Biologics and Vaccines di sottoporre alle autorità regolatorie africane il vaccino che ha realizzato riproducendo quello di Moderna, senza dover temere che da un momento all’altro l’azienda cambi politica e la metta al muro con cause miliardarie.
Ma i brevetti non sono tutto. Qualcuno li ha paragonati alla ricetta di un piatto realizzato da uno chef stellato, che ben pochi saprebbero riprodurre a regola d’arte. La differenza che passa tra il brevetto di un vaccino e la sua realizzazione è tuttavia molto maggiore, passando, oltre che dalla disponibilità di materie prime limitate, da un know-how di una complessità difficile da immaginare e trasmettere.
Qualcun altro ha usato la metafora del vino: mentre la bevanda può avere di annata in annata caratteristiche diverse, ogni lotto di vaccino deve essere perfettamente identico agli altri.
Basta una piccolissima, apparentemente irrilevante, variazione rispetto al prodotto autorizzato, che l’intero lotto deve essere gettato.
Ogni variazione nelle procedure, perfino lo spostamento di un macchinario all’interno della stessa struttura, deve essere dichiarato alle agenzie regolatorie.
Gli altissimi standard di qualità richiesti dalle autorità europee e statunitensi nella produzione, anche dopo la fine degli studi clinici di sicurezza ed efficacia, ostacolano, è vero, l’arrivo nei Paesi più ricchi di vaccini messi a punto in altre parti del mondo. Ma in fondo a noi non servono.
Unica eccezione, in attesa di quelli a mRna, potrebbe essere il prodotto cubano già utilizzato anche nei bambini sotto i 5 anni, ma, finché i suoi dossier non verranno sottoposti alle agenzie occidentali, non sarà possibile verificare se la sua produzione rispetta i nostri standard, a cui sarebbe pericolosissimo derogare.
Ultimamente, tuttavia, anche Pfizer e Moderna hanno lanciato segnali positivi. Saturato per ora il mercato occidentale, in attesa di nuovi prodotti più mirati contro omicron, cominciano a guardare anche verso sud. Il presidente americano Joe Biden ha annunciato che metterà 11 brevetti dei National Institutes of Health relativi a covid-19 a disposizione di tutti.
Intanto l’iniziativa internazionale Covax che, in collaborazione con Unicef, fin dall’inizio della pandemia ha cercato di ottimizzare acquisti e distribuzione per le aree più svantaggiate, ha dichiarato di avere accesso a un numero di dosi sufficiente a proteggere contro covid-19 almeno il 70 per cento della popolazione in 91 Paesi a basso reddito.
Il vero problema resta l’ultimo miglio. In Africa, per esempio, è stato somministrato circa il 70 per cento delle dosi ricevute. Occorre superare le difficoltà logistiche per raggiungere i villaggi più lontani, ridurre gli sprechi, in alcune zone vincere anche una certa ostilità da parte della popolazione.
Forse ora può sembrare tardi, vista la ridotta efficacia contro omicron dei vaccini attuali. Ma poiché SARS-CoV-2 non è destinato a sparire, dovremo comunque continuare a proteggerci. E questo, ora, deve davvero valere per tutti.
Non si parla più di una reazione emergenziale, ma di un programma strutturato che garantisca la costanza delle forniture, anche quando, come speriamo accadrà presto, si avranno nuovi vaccini più mirati nei confronti di omicron o di altre eventuali successive varianti.
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