Ne ha fatta di strada, la destra italiana. Chissà cosa avrebbe pensato il segretario del Movimento sociale italiano Giorgio Almirante, se avesse visto l’erede Giorgia Meloni nominare ministro della Giustizia un liberale come Carlo Nordio, dando il via libera alla separazione delle carriere, spacchettamento del Csm. E anche se avesse sentito tutti i ministri di Fratelli d’Italia definirsi «garantisti» davanti all’inchiesta per corruzione che ha colpito il governatore della Liguria, Giovanni Toti.

Il partito della premier così ha completato il mutamento genetico rispetto al proprio antenato politico, di cui però orgogliosamente continua a mantenere la fiamma nel simbolo.

Il giustizialismo di Almirante

La dottrina politica dell’Msi, infatti, era profondamente giustizialista e la linea del segretario estrema e coerente con la sua storia personale. Almirante, infatti, era favorevole alla pena di morte su cui scrisse un libello, durante gli anni di piombo: «Centomila volte la pena di morte», diceva da deputato, chiedendone la reintroduzione.

Votare per l’Msi, diceva Almirante in un comizio dell’11 giugno 1978, significa ottenere «una legislazione severa, repressiva, preventiva contro la delinquenza comune e politica. E’ un voto per l’ordine nella libertà».

Accantonata la posizione sulla pena di morte, è comunque su queste radici che si innerva la cultura giuridica della destra, fino alla svolta di Fiuggi in cui Gianfranco Fini chiude l’esperienza dell’Msi per aprire quella di Alleanza Nazionale.

Le manette di Fini

Nella seconda repubblica sono anche le posizioni in materia di giustizia che dividono la Forza Italia di Silvio Berlusconi, che sin dalla sua nascita porta avanti una battaglia contro quelle che il leader chiama «toghe rosse», dalla destra estrema.

Il delfino di Almirante, infatti, aveva imparato la lezione del maestro: secondo la scuola missina, pene esemplari vanno chieste per due categorie di reati: quelli reati comuni che però creano allarme sociale e quindi vanno puniti più duramente, e quelli commessi dai politici, che sono chiamati a dare il buon esempio. E Fini applicò questo insegnamento, da segretario missino, durante gli anni di Mani Pulite.

Durante Tangentopoli, infatti, l’Msi cavalcò l’inchiesta conducendo una energica campagna contro Dc e socialisti, definendoli «ladri di regime» e dichiarando apertamente il suo appoggio al pool di Milano, presentandosi alla campagna elettorale del 1992 con lo slogan «ogni voto una picconata». Addirittura, i consiglieri missini in regione Lombardia presentarono una mozione in favore del giudice Antonio di Pietro.

In quegli anni in cui ogni giorno arrivava la notizia di un nuovo avviso di garanzia, Fini amava sventolare manette e invocare dimissioni. Quando, nel 1992, il repubblicano Antonio Del Pennino venne indagato, Fini disse che «Deve finire questa moda dell'autocensura di chi è accusato. Troppo spesso diventa un alibi per sfuggire all'autocritica. È molto meglio l'auto-arresto».

Chiedere le dimissioni agli indagati rimase uno dei tic di Fini anche durante il decennio berlusconiano: chiese le dimissioni di Denis Verdini quando era solo indagato e di Nicola Cosentino quando militavano insieme nel Popolo delle libertà. Fino a quando non è finito anche lui in un’inchiesta giudiziaria per la vendita al cognato della famosa casa di Montecarlo lasciata in eredità al partito ed è stato condannato in primo grado per riciclaggio.

Fino a Meloni

Anche Meloni, che pure con Fini non ha mai avuto troppo feeling, è cresciuta con gli insegnamenti missini in materia di giustizia. Lei stessa ha raccontato di aver iniziato a fare politica dopo le stragi del 1992 in Sicilia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E, almeno fino a quando è stata all’opposizione, FdI è rimasta fieramente fedele alla scuola Almirante: pene severe per reati comuni ed esemplari per i politici indagati. Eppure, se è vero che il potere non l’ha cambiata, palazzo Chigi ha certamente ammansito la vena giustizialista imparata a Colle Oppio.

Di più, le ha anche fatto dimenticare di averla avuta, visto che in conferenza stampa di inizio anno ha sostenuto di di non aver mai chiesto le dimissioni per questioni di opportunità politica dopo inchieste giudiziarie. In realtà, quando era all’opposizione chiese le dimissioni della ministra Federica Guidi, il cui marito era indagato in un’inchiesta sul petrolio, e le spese dei suoi appassionati interventi d’aula le fecero anche l’allora ministra Maria Elena Boschi per il caso Etruria in cui era coinvolto il padre e il premier Matteo Renzi. La lista sarebbe lunga e conta anche ministre Josefa Idem e Annamaria Cancellieri.

Da quando è al governo, invece, le regole sono cambiate, almeno per chi fa parte della sua coalizione come la ministra Daniela Santanchè, il sottosegretario Andrea Delmastro, di cui ha detto che «si aspetti una eventuale condanna passata in giudicato», o il governatore ligure Giovanni Toti. Eppure, uno dei due insegnamenti almirantiani è rimasto.

Scordata la questione morale legata alla politica (è in dirittura d’arrivo l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio), è rimasto il principio dell’inasprimento delle pene per i reati comuni: da quello di rave party a quelli commessi da minori con il decreto Caivano, fino alle occupazioni di immobili, la minaccia a pubblico ufficiale o l’imbrattamento di beni mobili o immobili.

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