La premier sta per completare l’opera di indebolimento degli altri poteri statali, colpendo il Quirinale con la riforma della Costituzione. Il parlamento era stato già silenziato e la stampa indicata come nemica numero uno
Passi, si fa per dire, lo scontro con i magistrati, la battaglia ingaggiata con la stampa e il siluramento del parlamento. Ma il passaggio più atteso, il momento clou di questa prima fase di legislatura è la riforma della Costituzione, snodo decisivo per indebolire l’ultimo bastione dei poteri statali: il Quirinale. La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in questi mesi ha vissuto i contrappesi istituzionali (e non) come un fastidio, dei lacci da cui liberarsi anche con piglio ruvido. Resta solo il Colle più alto e la soluzione è stata trovata con le nuove regole istituzionali che arriveranno in consiglio dei ministri nelle prossime ore.
A differenza di altri casi, il Quirinale non viene attaccato frontalmente. Si usa più il fioretto che la sciabola. Dai vertici di Fratelli d’Italia, e di parte della maggioranza, si ripete il mantra che «le funzioni del capo dello stato non saranno toccate», anche al costo di rasentare il ridicolo di fronte a chi fa notare che la norma cosiddetta anti-ribaltone rappresenta uno stop al capo dello stato. Il presidente della Repubblica non potrà gestire le crisi di governo. Diventa un notaio, un’istituzione proforma.
Cari nemici
Il Quirinale è solo l’ultimo pezzo, quello decisivo. L’irritazione verso i contropoteri del governo si è manifestata in mille modi. La casistica del comportamento infastidito verso l’informazione è ricca. Roberto Saviano è finito a processo per delle affermazioni sulla premier ed è stato condannato. Tra le numerose istantanee, forse la più nitida, c'è la conferenza stampa in cui Meloni ha illustrato la manovra. Dopo il soliloquio, in cui ha elencato i titoli, ha salutato la compagnia, rifuggendo dalle domande dei giornalisti, e dando la parola ad altri, proprio mentre prendeva forma lo spauracchio dei «emendamenti zero». Momento topico: in un colpo solo ha mostrato il fastidio verso due poteri, parlamentari e mediatici. Non va certamente meglio ai corpi intermedi, il confronto con i sindacati si limita al minimo indispensabile.
Dai salari alla previdenza, passando per i diritti, le istanze, presentate dalle sigle più importanti, vengono puntualmente disattese. Un canale privilegiato resta la Cisl, che finora ha assunto una posizione filogovernativa. Ora pure segretario Luigi Sbarra ha alzato i toni, addirittura lui, prefigurando una mobilitazione contro la manovra con un focus sull’insoddisfazione per l’intervento sulle pensioni. Ma all’orizzonte non si scorge un’attenzione di Palazzo Chigi verso i sindacati. Anzi, gli annunci di sciopero vengono accolto con una metaforica alzata di spalle. Eppure, la leader di Fratelli d’Italia insiste nella descrizione di lei come l’underdog: lo aveva detto nel discorso di insediamento alla Camera e lo ha fatto, seppure con toni inferociti, nel video inviato in occasione della festa di un anno di governo. Un attacco indistinto contro tutto e contro tutti, inclusi quei poteri rei di bilanciare quello esecutivo, che opera già in un meccanismo di “premierato di fatto”.
Parlamento in vacanza
Ne sanno qualcosa in parlamento, istituzione assurta ad agnello sacrificale della volontà di Meloni di liberarsi dai “lacci” istituzionali. La manovra economica è finita sottochiave da Palazzo Chigi. Ed è la sintesi dello spostamento definitivo del potere legislativo nelle mani del governo, che sulla carta (costituzionale, anche) è titolare solo del potere esecutivo. Le Camere sono spodestate sull’onda della sfiducia popolare alimentata dai lavori che si trascinano stancamente con i parlamentari abili a farsi autogol. A dare fiato all'antiparlamentarismo. Un esempio? Questa settimana a Montecitorio è andato in scena un ponte lunghissimo, dalla mattina del 31 ottobre fino a lunedì 6 novembre. Del resto, i rappresentanti del popolo hanno poco da rappresentare. «Saremmo rimasti qua a fare nulla, in attesa dell'ennesimo decreto da convertire», allarga le braccia un deputato di opposizione sollecitato sulla questione. C’è il ricorso incessante alla questione di fiducia che va a braccetto con la martellante decretazione d’urgenza. Tanto che spesso c’è un ingorgo di provvedimenti da smaltire per evitarne la decadenza.
L’umore alla Camera è un mix di rassegnazione e depressione. In Transatlantico, nei giorni scorsi, si aggirava un amareggiato Luigi Marattin, deputato di Italia viva, che incalzava i vari colleghi: «Sai cosa dobbiamo votare? Mozioni su tutto. Ma qua si votano le leggi non le mozioni». E ogni interlocutore gli dava ragione. Marco Grimaldi, deputato di Alleanza verdi-sinistra, ha denunciato: «Meloni si è presentata in un anno una sola volta alle interrogazioni a risposta urgente. mentre presidente o vicepresidente dovrebbero intervenire due volte al mese». Il cosiddetto premier time è sparito dai radar. Meloni non riesce a ritagliarsi un’oretta nell’agenda per presentarsi il mercoledì, giorno in cui è previsto il question time. Con buona pace dei presidenti di Camera e Senato, Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa, che – a parole –ricevono garanzia sul rispetto del rispetto del parlamento.
Piccole riforme giustizia
A chiudere il cerchio c’è la magistratura. I rapporti non sono – per usare un eufemismo - all’insegna della serenità. La giudice di Catania, Iolanda Apostolico, è solo il caso più rumoroso, diventato obiettivo di attacchi politici, con una sentenza che ha lasciato, testualmente, «basita» la premier I successivi pronunciamenti sui decreti sull’immigrazione, di fatto depotenziati, hanno scatenato la reazione di Meloni: «Mi preoccupa la difesa corporativa dei magistrati».
Dalle parole si passa ai fatti. Come? Con una sequenza di mini-interventi legislativi, a cominciare dal ritocco dell’uso di intercettazioni, recentemente passato al vaglio del parlamento. C’è poi in agenda il cambiamento sulla prescrizione, già votato in commissione alla Camera e che attende i passaggi successivi nelle prossime settimane. Sullo sfondo resta il ddl Nordio, la riforma complessiva che porta con sé l’abolizione dell’abuso d’ufficio, mentre si accarezza l’antico sogno berlusconiano della separazione delle carriere per i magistrati. Il fronte con i giudici è aperto, come sempre. Esattamente come per gli altri poteri.
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