Nei giorni scorsi, in occasione delle pronunce in tema di immigrazione che hanno disapplicato alcune norme del cosiddetto decreto Cutro, esponenti di governo si sono espressi in termini critici, affermando diverse inesattezze in punto di diritto. Ad esempio, che i giudici devono applicare le leggi, non disapplicarle, e semmai dovrebbero sempre rimettere la questione alla Corte costituzionale, non decidere in autonomia; inoltre, che la firma delle leggi stesse da parte del presidente della Repubblica le renderebbe insindacabili dai giudici stessi.
Queste affermazioni non hanno fondamento giuridico.
Limitazioni della sovranità nazionale
Uno dei pilastri della Costituzione è l’articolo 11: lo stato vive in una relazione di interdipendenza con altri stati e organizzazioni internazionali, e ciò determina alcune limitazioni della sovranità nazionale. Dai lavori della Costituente si evince che la formulazione dell’articolo 11 è stata lasciata volutamente vaga e generale, in modo da far sì che l’Italia potesse partecipare ai successivi sviluppi non solo della comunità internazionale, ma anche di quella europea. Successivamente, sono stati inseriti nella Carta una serie di riferimenti specifici all’Ue. Nel 2001, con la riforma del Titolo V, nella distribuzione delle competenze legislative tra stato e regioni, sono stati richiamati i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» (art. 117, c. 1). Con la revisione costituzionale del 2012 è stato introdotto il principio del pareggio di bilancio e della sostenibilità del debito pubblico, da perseguire «in coerenza con il diritto dell’Unione europea» (art. 97, c. 1). Infine, è stato sancito l’obbligo, per tutti gli enti territoriali, di concorrere all’osservanza dei «vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione europea» (art. 119, c. 1).
La prevalenza del diritto dell’Ue
Il principio del primato del diritto dell’Unione europea significa che, in caso di difformità tra la legge nazionale e quella europea, deve prevalere la seconda. Se così non fosse, gli Stati membri potrebbero consentire al loro diritto nazionale di superare il diritto dell’Ue, e il perseguimento delle politiche di dell’Unione diverrebbe impraticabile.
Tale principio si è sviluppato nel tempo mediante la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Ue (Cgue) ed è stato poi recepito nella Dichiarazione 17 allegata al Trattato sul funzionamento dell’Ue. La prevalenza di una norma dell’Unione su una norma nazionale, con disapplicazione di quest’ultima, opera solo se ricorrono alcuni presupposti: che si tratti di settori per i quali i paesi membri abbiano ceduto la sovranità all’Unione stessa (mercato unico, ambiente, trasporti e così via); che la norma della direttiva con cui quella interna contrasta sia chiara, precisa e incondizionata, quindi immediatamente applicabile, e non sia stata recepita o lo sia stata in modo errato.. A queste condizioni, «ove insorga un conflitto tra un aspetto del diritto dell’Unione e un aspetto del diritto di uno stato membro dell’Unione (diritto nazionale), prevale il diritto dell’Unione», come affermato dalla Cgue, e «la normativa interna incompatibile con quella dell'Unione va disapplicata dal giudice nazionale», come riconosciuto anche dalla Corte costituzionale.
La firma del presidente della Repubblica
Il preventivo controllo di legittimità da parte del Presidente della Repubblica può sfociare nel rifiuto di firmare provvedimenti manifestamente lesivi di norme e principi costituzionali. Il controllo di legittimità del Quirinale è diverso da quello svolto dalla Consulta, pur essendo finalizzato agli stessi scopi. Il Capo dello Stato opera un primo vaglio dell’intero provvedimento, riferito agli eventuali profili di contrasto palese con la Carta; mentre la Corte valuta la specifica questione di legittimità costituzionale sottoposta al suo giudizio. Per cui è accaduto molte volte che il capo dello Stato abbia firmato una legge poi dichiarata incostituzionale dalla Consulta.
Detto questo, il preventivo vaglio di legittimità fatto dal presidente della Repubblica non c’entra nulla con la disapplicazione della norma nazionale fatta dal giudice, né la preclude. Il giudice, infatti, non valuta la legittimità della norma interna difforme da quella europea, ma la disapplica per il principio di primazia del diritto dell’Ue; e non deve sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma stessa dinanzi alla Consulta, come invece sarebbe tenuto a fare se il contrasto fosse con una disposizione costituzionale. Inoltre, la disapplicazione della norma è solo per il caso concreto portato in giudizio, e non in via generale, come accade con la pronuncia d’incostituzionalità da parte della Consulta. Pure per questo continuano a susseguirsi pronunce di disapplicazione del decreto Cutro in relazione a una serie di vicende esaminate dai tribunali.
La sovranità nazionale
Esponenti della maggioranza di governo oggi ripetono all’unisono che il diritto nazionale non può essere disapplicato per contrasto con quello europeo, come se ciò fosse una novità derivante da una sorta d’insensatezza giudiziaria. Premesso che così non è - come spiegato - quei politici forse non rammentano che nel 2018 Fratelli d’Italia presentò in Parlamento due proposte di revisione costituzionale (n. 291 e n. 298), prima firmataria Giorgia Meloni, proprio per attenuare il “problema” della prevalenza del diritto europeo, e quindi la disapplicazione da parte dei giudici della normativa nazionale contrastante con quella dell’Ue. La prima proposta prevedeva che il diritto europeo fosse applicabile solo «in quanto compatibile», tra l’altro, con il principio di sovranità nazionale; la seconda depennava dalla Costituzione specifici richiami all’ordinamento dell’Ue (artt. 97, 117 e 119).
Insomma, la prevalenza del diritto europeo su quello nazionale è un principio di cui all’epoca erano ben consapevoli quei politici che oggi, invece, ne contestano esistenza e conseguenze, quali la disapplicazione nei tribunali. Memoria corta o mera convenienza?
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