- La quieta forza di persuasione di Mattarella che ha governato la politica italiana per tutta la legislatura non ha retto di fronte all’ondata di irrazionalità che si è scatenata mercoledì scorso nell’aula del Senato.
- Nel 2018, quando il Movimento 5 stelle vinse le elezioni, la strategia ipotizzata al Quirinale fu quella di includere nelle istituzioni e poi nel governo il partito dell’anti politica, convertire i populisti alla responsabilità nazionale. Una mossa di pura ispirazione morotea. A giudicare dal collasso finale della legislatura, l’operazione può dirsi fallita.
- Rischia di ripetersi per Mattarella quello che è successo a Giorgio Napolitano tra il 2013 e il 2015. Un primo mandato concluso con un consenso diffuso, un secondo mandato breve, discusso e tormentato.
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«La quieta forza della persuasione». Venerdì sera, all’imbrunire, Sergio Mattarella è uscito dal palazzo presidenziale, si è seduto in prima fila, ha ascoltato l’attore Andrea Pennacchi, l’orchestra del teatro dell’Opera di Roma, le voci con la rilettura di versi scritti 2500 anni fa, sul superamento della vendetta e il ripudio della guerra. «Nei purpurei mari dormono i mostri neri/ma il navigante ad occhi aperti non dirotta mai». Sul palco c’era la musica emozionante di Nicola Piovani e in platea il suono della pagina che si volta, di un mondo che finisce. Nella piazza del Quirinale c’erano giudici della Corte costituzionale, parlamentari, presidenti di authority, vertici delle Forze armate, professori universitari, direttori di giornale, alti dignitari dello stato, riuniti per la prima esecuzione dell’opera di Piovani, Il sangue e la parola, ispirata alle Eumenidi di Eschilo e ad alcuni testi preparatori dell’Assemblea costituente.
Nell’attesa, il presidente della Consulta Giuliano Amato, che ha organizzato la serata, stringeva mani e salutava. Tra il pubblico molto centrosinistra, della destra solo il senatore di Forza Italia Francesco Giro, nessuno di Lega e Fratelli d’Italia, di Cinque stelle neppure l’ombra, di Giuseppe Conte o di Luigi Di Maio. Anche il governo Draghi sembrava già passato. Gianni Letta si sfogava con un amico: «Sono stato sconfitto. Mi sento amareggiato e deluso». L’establishment inquieto si affidava al presidente, come sempre.
Mattarella ha compiuto 81 anni il 23 luglio, il 29 saranno i primi sei mesi del secondo mandato. Il navigante della Repubblica sa che lo attendono mari di tempesta. È stato annullato il tradizionale incontro con l’associazione dei giornalisti parlamentari, l’occasione in cui ogni anno il presidente fa il punto della situazione con la stampa, fissato per il 27 luglio, con gli inviti già distribuiti. È la prima volta che accade dal 1995. Un gesto di prudenza che restituisce una sensazione di fragilità.
L’agenda Mattarella
Il presidente ha parlato subito dopo aver sciolto le Camere, e non è stato un messaggio formale. Inflazione, costo dell’energia, l’attuazione del Pnrr, «un periodo che non consente pause». Più il passaggio sulla «guerra della Russia contro l’Ucraina» e sugli interventi «indispensabili» per «la sempre più necessaria collaborazione a livello europeo e internazionale» che tradisce la preoccupazione del presidente sulla tenuta dell'Italia nei prossimi mesi sul fronte anti Putin.
È l’agenda Mattarella, che conterà in campagna elettorale e dopo il voto del 25 settembre molto di più della fantomatica agenda Draghi. Potenzialmente conflittuale con i predestinati alla vittoria nelle elezioni di settembre.
La quieta forza di persuasione di Mattarella che ha governato la politica italiana per tutta la legislatura non ha retto di fronte all’ondata di irrazionalità che si è scatenata mercoledì scorso nell’aula del Senato, costringendo il presidente allo scioglimento anticipato delle Camere.
La prima volta fu nel 1972, cinquant’anni fa. Mezzo secolo di crisi del sistema politico, la malattia di cui soffre il corpo istituzionale: la debolezza dei governi cominciò all’epoca ed è arrivata fino ad oggi, all’incredibile XVIII legislatura che si è appena chiusa in modo traumatico, senza aver trovato un punto di equilibrio, sospesa tra il governo dei gialloverdi e il governo dei giallorossi dei due Giuseppi Conte, e il governo di unità nazionale presieduto da Mario Draghi su appello diretto di Mattarella.
È stato uno scioglimento posticipato più che anticipato, come ha scritto sabato Rino Formica su questo giornale, la cronaca di una fine annunciata.
La strategia quirinalizia
Nel 2018, quando il Movimento 5 stelle vinse le elezioni, la strategia ipotizzata al Quirinale fu quella di includere nelle istituzioni e poi nel governo il partito dell’anti politica, convertire i populisti alla responsabilità nazionale. Una mossa di pura ispirazione morotea, ma con una traduzione più cinica, la formula che lo storico Giovanni Orsina ha tradotto con l’espressione romanizzare i barbari.
A giudicare dal collasso finale della legislatura, l’operazione può dirsi fallita. L’unico a farsi romanizzare in modo completo è stato Luigi Di Maio, dai gillet gialli alla Farnesina, da apriscatole a profeta della stabilità, ma non valeva tutto questo sforzo. La maldestra scissione dai Cinque stelle del gruppo vicino al ministro degli Esteri è stato un errore fatale, per i modi e i tempi scelti.
Ha scatenato la reazione di Conte che si è visto stritolato, strattonato tra governisti e movimentisti, senza più spazio politico che non fosse quello della rottura, e non è servito a salvare Draghi. La romanizzazione di Di Maio, con il suo trasformismo, ha risospinto gli ex compagni della piattaforma Rousseau su posizioni radicali, nonostante gli agi garantiti da un qualche effimero potere.
Il ritorno della destra
Nei sondaggi vince il centrodestra guidato da Giorgia Meloni. Matteo Salvini è tornato indietro di tre anni e sui social si raffigura di nuovo al Viminale, senza barba, giura di voler tornare al governo dimenticando che nella legislatura terminata la Lega ha governato per tre anni su quattro e ha avuto suoi ministri importanti in due governi su tre.
Silvio Berlusconi fa sapere di volersi candidare alla presidenza del Senato, il supplente del Quirinale quando il capo dello stato ha qualche motivo di impedimento, i ministri di Forza Italia hanno abbandonato il partito, Gianni Letta si dichiara sconfitto.
Si sta formando un’area legata all’ex deputato Alessandro Di Battista e anche Beppe Grillo è tentato dall’antico: il parlamento che gli italiani non meritano, i grillini appestati, il cuore da ragioniere. I barbari si moltiplicano. Altri ne spunteranno in campagna elettorale. E tutti insieme assedieranno il Quirinale.
La maledizione
«È l’ora più buia», lancia l’allarme l’ex segretario del Partito popolare Pierluigi Castagnetti, amico del presidente. Rischia di ripetersi per Mattarella quello che è successo a Giorgio Napolitano tra il 2013 e il 2015. Un primo mandato concluso con un consenso diffuso, un secondo mandato breve, discusso e tormentato. La maledizione del Quirinale che si abbatte sul monarca repubblicano.
Non si è ancora spenta nella memoria la scena dell’anziano presidente che nel 2013 fustiga il parlamento dopo essere stato rieletto, tra gli applausi sconclusionati dei grandi elettori frastornati.
Una settimana dopo giurò il governo delle larghe intese Pd-Pdl-Scelta civica, con il presidente scelto da Napolitano, Enrico Letta, allora numero due del Pd.
Napolitano, in modo inusuale, uscì a salutare il neopresidente del Consiglio che aveva appena finito di leggere la lista dei ministri e davanti alle telecamere prese le mani di Letta tra le sue, a significare che quello era il suo governo, il suo progetto.
Nove mesi dopo si ritrovò a sostenere il nemico numero uno di Letta, Matteo Renzi, eletto segretario del Pd. In mezzo, c’era stata la condanna di Berlusconi, la sua estromissione dal Senato, l’uscita di Forza Italia dalla maggioranza con la scissione del ministro Angelino Alfano, il Di Maio dell’epoca.
Il cambio di Letta con Renzi avvenne durante una cena al Quirinale, intima, familiare, con le mogli del vecchio presidente e del giovane leader in ascesa. In un clima da tragedia shakespeariana, di pugnali e veleni, di padri che sacrificano i figli.
Per Napolitano la seconda presidenza durò meno di due anni, segnata anche dalla deposizione al Quirinale come testimone nel processo avviato dalla procura di Palermo sulla trattativa Stato-mafia durante le stragi del 1993. Il 14 gennaio 2015 Napolitano firmò le dimissioni e tornò a casa, il Quirinale era diventato una prigione.
«Ha fatto il possibile e l’impossibile per compiere e far compiere qualche passo avanti. E questo è avvenuto ma non è stato sufficiente. Questa è la tristezza che Napolitano ha sentito emergere dentro di sé...», lo salutò l’amico Eugenio Scalfari su Repubblica. Un precedente che non lascia tranquilli.
La terza fase di Mattarella
Anche Mattarella ha concluso il primo mandato con un consenso quasi unanime ed è stato richiamato a furor di parlamento. Immaginava un finale di legislatura «ordinato», con le elezioni nella tarda primavera del 2023.
La crisi di Draghi apre invece una terza fase della sua presidenza, la più incerta. La prima fu quella dei primi anni, tra il 2015 e il 2017, con i governi Renzi e Gentiloni, presieduti da premier del Pd, il partito che lo aveva portato al Quirinale.
Se fosse passata la riforma della Costituzione di Renzi, Mattarella sarebbe stato privato di fatto dei due principali poteri presidenziali, la nomina del presidente del Consiglio e lo scioglimento anticipato delle Camere. Tutte le guerre intorno al Quirinale si sono scatenate su questi due poteri.
La sconfitta di Renzi nel 2016 ha restituito al presidente e a Mattarella un ruolo centrale, ma anche la responsabilità di reggere la crisi del sistema. La seconda fase ha coinciso con la legislatura appena conclusa.
Per Mattarella iniziò con una richiesta di impeachment, quando obiettò sulla scelta di Paolo Savona come ministro dell’Economia no-euro nella prima lista di governo presentata dallo sconosciuto Giuseppe Conte.
Ad agitare la minaccia dello stato d’accusa fu quel Di Maio che oggi fa lo statista, in compagnia di Di Battista. La legislatura è proseguita con la crisi di governo dell’agosto 2019, senza un’alleanza prestabilita, conclusa con il Conte due e il Pd nel governo.
L’incarico a Draghi nel 2021 e l’ingresso in maggioranza di M5s e Lega con Pd e Forza Italia sembrava aver concluso il processo di romanizzazione dei barbari. Con i populisti sconfitti, nel governo voluto da Mattarella, guidato dall’ex banchiere centrale, espressione dell’Europa e di quei poteri forti che Grillo, Salvini, Di Maio e Di Battista si proponevano di arginare.
La paralisi politica
La rielezione di Mattarella sei mesi fa, con il voto di tutta la maggioranza di governo, è sembrata il suggello dell’operazione. Invece – ma a voler guardare era già evidente in quelle ore – era il segno di un altro blocco del sistema.
La paralisi, più che la scelta, ha portato per la seconda volta i partiti a confermare un presidente e a bocciare la candidatura di Draghi al Quirinale. È stata l’inizio della fine della maggioranza e del governo, una spaccatura insanabile tra il premier e i suoi sostenitori, anche sul piano psicologico.
È l’ennesima conferma che un’operazione dall’alto, senza radici nella società, è destinata a capovolgersi nel suo contrario. Successe nel 1994, quando dopo il governo Ciampi arrivò Berlusconi, e nel 2013 quando il governo del tecnico Mario Monti funzionò come incubazione del boom elettorale dei Cinque stelle. Mattarella è stato più attento dei suoi predecessori, è rimasto fedele alla sua cultura politica, è stato più sensibile al muoversi dei fenomeni reali nella società. Ma c’è il pericolo che il risultato sia lo stesso.
La terza fase della presidenza Mattarella comincia con le dimissioni di Draghi e la prospettiva di una vittoria dei sovranisti nelle urne. Di fronte alla possibile spinta dei vincitori Mattarella può proporsi come custode silenzioso delle regole costituzionali, come fece Carlo Azeglio Ciampi tra il 2001 e il 2006 con Berlusconi, in convivenza con partiti che hanno votato per rieleggerlo al Quirinale (Lega e Forza Italia) e il partito di Giorgia Meloni che ha sempre mantenuto un rispetto formale.
Solo di recente, grazie alla pubblicazione di alcune note del suo diario, abbiamo saputo quanto sia stata difficile per Ciampi arginare il Cavaliere, anche sul terreno internazionale, quando nel 2003 Berlusconi puntava a entrare nella coalizioni dei volenterosi nella guerra contro Saddam Hussein, la prima spaccatura dell’Europa, e il Quirinale lo bloccò.
Partiti senza agenda
Il ruolo del presidente, intanto, è cambiato. L’ultimo netto successo elettorale di una coalizione risale al 2008, quando Berlusconi vinse a valanga sulle macerie dell’Unione di Romano Prodi. Poi, i governi si sono fatti soprattutto al Quirinale.
Oggi il centrodestra è favorito perché, nonostante il gran parlare di agenda Draghi, il premier non ci sarà sulla scheda elettorale. E se lui non c’è, l’agenda si riduce ad agendina, una rubrichetta per partiti e leader desiderosi di attaccarsi a una qualche bandiera elettorale. Un gioco di specchi: partiti senza agenda si rifugiano in un’agenda rimasta lettera morta perché senza partiti, senza forze politiche e sociali che abbiano saputo trasmetterla sui territori e nella vita concreta di milioni di italiani.
Se l’agenda Draghi è destinata a sparire dal dibattito, l’agenda Mattarella ci sarà, in campagna elettorale e anche dopo il voto. Sul piano delle riforme economiche e sociali e soprattutto sulle alleanze internazionali, su cui il presidente rivendica un ruolo di garante, secondo le linee espresse nel discorso del 22 aprile a Strasburgo, all'assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa.
Ma non è scontato che l’agenda Mattarella possa coincidere con quella dei candidati alla vittoria del 25 settembre, anzi. Di certo una eventuale vittoria del centrodestra costringerebbe Mattarella ad andare avanti. Il suo secondo mandato scadrà nel gennaio 2029, una data lontanissima, che scavalca tutta la prossima legislatura. Ma a che prezzo, anche sul piano personale? Per non parlare di quello politico e istituzionale.
Il parlamento sotto tiro
Sta per riaccendersi il dibattito delle riforme costituzionali. Con il taglio dei parlamentari, che il Pd accettò in modo scellerato di appoggiare in quarta lettura in omaggio all’alleanza con M5s, senza assicurarsi prima una nuova legge elettorale e la riforma dei regolamenti parlamentari, il prossimo parlamento rischia di essere nuovamente ingovernabile, con maggioranze ristrette in aula (o nessuna maggioranza) e numeri impossibili da governare nelle commissioni.
E in campagna elettorale Giorgia Meloni tornerà a riproporre il semi presidenzialismo, bocciato alla Camera a maggio anche per via delle assenze di Forza Italia e Lega. Le prime proiezioni elettorali dicono che ogni scenario è aperto. Un pareggio al Senato tra le coalizioni.
Ma anche, al contrario, una slavina che porterebbe il centrodestra unito a sfiorare i due terzi dei seggi necessari per riformare la Costituzione senza passare da un referendum popolare. A finire sotto tiro sarebbe il parlamento, già mutilato nei suoi componenti e sotto accusa per la scarsa rappresentatività di deputati e senatori.
Il cerchio sarebbe così completato: il centrodestra che per primo introdusse la vergogna delle leggi bloccate nel 2006 con il Porcellum accuserebbe il parlamento di essere la causa di ogni male e si appellerebbe direttamente al popolo. Uno scenario che restringerebbe gli spazi di manovra di Mattarella.
La prima presidenza di Mattarella è stata la più drammatica della storia repubblicana, con la crisi politica permanente e la pandemia. La seconda presidenza potrebbe superare perfino quell’inquietante primato. Lo spettro della Babele non è più soltanto italiano, nel 1922 la disunità si aggira nell’Europa percorsa dai fantasmi della guerra di un secolo fa, dove perfino sistemi politici forti conoscono la debolezza dei governi.
Scudo all’antipolitica
A Mattarella è toccato nei primi sette anni il compito di fare da punto di riferimento, di offrirsi come nello smarrimento generale come un capo, lui che quella parola non avrebbe voluto neppure pronunciarla, per impedire che nel vuoto crescessero l’antipolitica, il populismo, il sovranismo.
È stato il punto di incrocio su cui si sono scaricate tutte le tensioni. Si è proposto l’obiettivo di colmare la frattura tra la politica e la società, il distacco con le istituzioni. Ma in questi anni, alla fine, il distacco si è allargato e la fine del governo Draghi, per «la discussione, il voto e le modalità con cui questo voto è stato espresso», come ha detto il presidente, dimostra che il fronte populista è più forte che mai.
Il potere come dannazione. La condanna a restare. Ancora una volta nel palazzo del Quirinale la persona si identifica con l’istituzione, negli omaggi che spettano al monarca repubblicano e nella sua solitudine e in quella sfumatura che racchiude le incertezze, le ambiguità e le possibilità di scelta della politica. Nella tragedia di Eschilo e nell’opera di Piovani la parola illumina l’oscurità, Mattarella, il navigatore della Repubblica, si prepara a un viaggio carico di incognite. Ad occhi aperti, ma non è detto che basteranno.
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