- Stavolta a votare no alla richiesta di inserire la legge Zan nel calendario del Senato sono tutte le forze della maggioranza. Anche la Lega. E persino Italia viva che all’inizio di agosto aveva tentato una manovra simile a quella che ieri Fratelli d’Italia ha provato a innescare, per portare subito in aula il testo contro l’omofobia.
- Le forze di maggioranza si sono accordate per rimandare lo scontro finale a dopo i ballottaggi, dunque dopo il 17 ottobre.
- Per Rossomando (Pd) quello di FdI è «il tentativo di incidentare i lavori del parlamento e affossare un provvedimento cui noi teniamo moltissimo», che dopo la giustizia «porteremo in aula e approveremo». «Non c’è limite all’ipocrisia, una forzatura strumentale e meschina» secondo la Cinque stelle Alessandra Maiorino.
Stavolta a votare no alla richiesta di inserire la legge Zan nel calendario del Senato sono tutte le forze della maggioranza. Anche la Lega. E persino Italia viva che all’inizio di agosto aveva tentato una manovra simile a quella che ieri Fratelli d’Italia ha provato a innescare, per portare subito in aula il testo contro l’omofobia. Tutto inutile, una recita in famiglia.
Con la differenza che stavolta tutti i partiti – tranne FdI – hanno ammesso che per discutere (e approvare?) il ddl servono tempi più distesi rispetto alla manciata di giorni che ci separano dallo stop delle camere per le elezioni amministrative.
C’è di più, anche se non si dice: alla fine conviene a tutti sfilare la discussione sui diritti dalle risse elettorali. La Lega, per esempio, ha capito di aver tutto da perdere da quando ha scoperto che il ddl Zan gode di una valanga di consensi fra i giovani. Per questo aveva accettato il patto proposto da Pd, Leu e M5s prima dell’estate: evitare il confronto in campagna elettorale, quando fatalmente diventa uno scontro frontale.
Binario morto
A rompere questo gentlemen’s agreement fra le forze di maggioranza ieri ha provato il meloniano Luca Ciriani. Il calendario era stato già approvato dalla capigruppo, lui ha riproposto la questione in aula. Con argomenti non originali: «Va fatta chiarezza, il ddl Zan è importante o non lo è più? Ora è su un binario morto, in attesa del funerale a novembre». Metafore funebri a parte, è lo stesso armamentario teorico che aveva usato all’inizio di agosto il senatore Davide Faraone, capogruppo renziano, per avanzare la stessa richiesta, sperando di incastrare il Pd e i M5s nella “contraddizione” di volere approvare una legge ma rimandarla in attesa di un momento propizio. Salvo che poi Faraone deve averci ripensato. Perché ieri anche lui si è unito al coro dei “no” a FdI: «Questo provvedimento lo dobbiamo modificare e approvare con la più ampia maggioranza possibile, è opportuno riprendere la discussione dopo le amministrative».
Le forze di maggioranza si sono accordate per rimandare lo scontro finale a dopo i ballottaggi, dunque dopo il 17 ottobre. Prima delle comunali palazzo Madama deve approvare i decreti sul green pass (ieri si è votata la fiducia), i provvedimenti sulla giustizia civile e penale che servono per ricevere i fondi del Pnrr. Il 15 ottobre inizia la sessione di bilancio, che quest’anno parte dal Senato. Di fatto la Zan sarà calendarizzata prima, o subito dopo la finanziaria. Dunque quella di Ciriani è solo una provocazione secondo Anna Rossomando, vicepresidente dem del Senato, «il tentativo di incidentare i lavori del parlamento e affossare un provvedimento cui noi teniamo moltissimo», che dopo la giustizia «porteremo in aula e approveremo». «Non c’è limite all’ipocrisia, una forzatura strumentale e meschina» anche secondo la Cinque stelle Alessandra Maiorino. La mossa di FdI spacca il centrodestra. Il capogruppo leghista Massimiliano Romeo, in evidente imbarazzo – deve votare contro argomenti che ha utilizzato in passato – prova a mischiare le carte: «Resto stupito dall’atteggiamento di FdI, spero sia solo tattica e non un cambio di orientamento politico sul provvedimento». Ma l’episodio di ieri rivela qualche dettaglio più interessante. Dietro la tregua che le forze della maggioranza hanno temporaneamente firmato, la situazione è meno incartata di quello che appare.
È vero che domenica scorsa a Bologna, al comizio finale della feste dall’Unità, il segretario Pd Enrico Letta ha assicurato che la legge sarà approvata così com’è, e lo stesso lo ius cultura. Ed è vero che Salvini gli ha risposto picche: entrambi i testi «non hanno speranza di passare». Ed è vero anche che Renzi a parole si è offerto per una mediazione ma finita in un buco nell’acqua.
Ieri invece Anna Maria Bernini, presidente di Forza Italia, ha lasciato intendere che qualcosa si muove. Prima ha respinto la provocazione di FdI, «suggerirei ai colleghi di FdI di resistere ancora un mesetto, se ce la fate, e poi portiamo il ddl in aula». Poi ha aggiunto un più malizioso «cercando tutti insieme di modificarlo e di renderlo il migliore possibile». Fuori dall’aula ha spiegato meglio cosa intendeva dire. Bernini, a differenza di una buona parte del gruppo che governa, è favorevole a una legge contro l’omofobia. La definisce persino «un segnale culturale molto importante, necessario». Ma per questo non può essere una scelta di parte, né «può essere trasformato in una legge in cui tutti sono liberi, ma alcuni sono più liberi degli altri». Quindi «si può lavorare sull’articolo 1 e sull’articolo 4», ovvero rispettivamente quello che definisce il significato di “identità di genere” e quello che ribadisce la libertà di pensiero pasticciandola, secondo le destre, «e trovare un accordo ampio. Magari potremmo anche smettere di chiamare la legge “Zan” per evitare di farla percepire come una scelta di parte. Dopo le elezioni accadrà che qualcuno si aprirà all’ascolto dell’altro. Anche Letta, se davvero vuole fare l’interesse delle persone a cui si rivolge, e non lo stretto interesse del suo partito».
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