La maggioranza ha scelto di non bocciare le proposte delle opposizioni. Di volta in volta le ingloba in una delega. Così viene silenziato il dibattito parlamentare. Ieri l’ultimo caso
La destra ha scelto
di non bocciare le proposte
delle opposizioni
Preferisce inglobarle
in una legge delega
Nessun dialogo in parlamento. Le aule servono solo a ratificare le decisioni del governo. Così le proposte delle opposizioni non devono trovare spazio. L’ordine è categorico: si va dal salario minimo al conflitto di interessi, ultima vittima in commissione Affari costituzionali alla Camera, dove è stato approvato l’emendamento che cancella la proposta iniziale del Movimento 5 stelle, trasferendo la responsabilità al governo.
Il tutto all’urlo di “non passi la minoranza”. Ancora di più se le iniziative sono popolari. Ed è un antipasto di cosa accadrà con l’eventuale riforma del premierato: Camera e Senato silenziate, oltre a un presidente della Repubblica ridotto a spettatore.
Affossamento lento
La strategia è collaudata. Appena in parlamento arriva un testo delle opposizioni, invece di avviare l’esame tradizionale, con il voto degli emendamenti, la maggioranza sceglie la strada dell’affossamento. A lento rilascio. Sì perché non c’è la bocciatura tout court. Il metodo è più sottile: viene inglobato in una legge delega, che demanda al governo la necessità di legiferare sul tema, fissando solo la cornice normativa. E prescrivendo una tempistica di emanazione lunghissima. Così finisce nel dimenticatoio.
Una sorta di esproprio delle prerogative del parlamento. Certo, lo strumento della legge delega è previsto, ci mancherebbe. Viene usato per i testi unici, le maxi riforme che intervengono su un determinato settore. Ma la destra ci ha preso gusto, facendone ricorso come un salvavita.
Ed è successo proprio con la proposta del Movimento 5 stelle, a prima firma Giuseppe Conte, sul conflitto di interessi. Il M5s aveva spinto affinché si affrontasse il dibattito, visto che l’Italia – come ricordato in un rapporto di Transparency – è messa male. La proposta era stata accolta con un’apparente disponibilità al dialogo da parte della maggioranza. Ma era un’operazione di facciata.
Dopo le prime schermaglie, Forza Italia e Lega hanno predisposto l’artiglieria degli emendamenti per depotenziare l’impatto della legge. Il Movimento 5 stelle, da parte sua, aveva aperto a un confronto nel merito, accettando modifiche. Non c’è stato nulla da fare. Qualcosa, però, nella maggioranza è cambiato. In commissione l’ostilità più tenace è stata manifestata da Noi moderati, il piccolo partito centrista guidato da Maurizio Lupi, che ha trascinato sulle barricate anche Fratelli d’Italia.
Il partito di Giorgia Meloni ha sposato la linea della durezza. Senza pronunciare un no secco, ma seguendo una rotta già battuta: avocare il dossier a palazzo Chigi attraverso una legge delega. «In questo caso la forzatura è ancora più incredibile», spiega a Domani il capogruppo del Movimento 5 stelle alla Camera, Francesco Silvestri, «perché il governo dovrà stabilire le regole sul conflitto di interessi per chi è stato al governo. C’è un conflitto di interessi già in partenza. Ed è questo il problema per cui manca una legge sulla materia». «Avevamo proposto un iter parlamentare per un percorso ordinario», aggiunge il presidente dei deputati del M5s.
Il risultato è che la prossima settimana l’aula di Montecitorio ratificherà la decisione, assegnando la delega all’esecutivo. Il tempo previsto per esercitarla è di due anni. In pochi credono che la maggioranza possa mettere mano a una riforma credibile. Del resto già la cornice è stata sfumata. Eliminando, tra le varie cose, il divieto di percepire ricompense da istituzioni estere. Misura che interesserebbe da vicino Matteo Renzi.
Vecchie abitudini
Quella sul conflitto di interessi è la terza proposta delle opposizioni affossato tramite legge delega. «Ancora una volta la maggioranza si appropria di una proposta in quota delle opposizioni per distruggerla. È un modo per sotterrare la legge», accusa Filiberto Zaratti, deputato di Avs.
Il caso di scuola resta il salario minimo: dopo la battaglia che ha unito le opposizioni, il governo ha cercato la strada per stoppare il progetto. Dopo la melina di due mesi, con l’assegnazione del dossier al Cnel, è arrivato il colpo di scena: l’emendamento affossatore del testo delle minoranze e l’indicazione della legge delega come mezzo per legiferare sul punto.
O meglio, per evitare di fare una legge, senza dover bocciare in maniera diretta il provvedimento. Proprio perché apprezzato da un’ampia fetta di elettorato. E già prima la rotta era stata battuta, come esperimento trasformatosi in un modello in questa legislatura, sul voto dei fuorisede.
Ieri il parlamento è intervenuto, quasi in extremis, per garantire agli studenti di poter votare alle prossime europee senza dover rientrare nei comuni di residenza ma, come ha sottolineato Mara Carfagna (Azione), «si tratta di 600mila persone su un totale cinque milioni».
«Abbiamo presentato un emendamento per garantire il diritto al voto anche ai fuorisede per motivi di lavoro e di cura - ha detto – è stato respinto con la motivazione che non ci sono i tempi tecnici. Ma se non ci sono è perché il governo, anziché procedere con l’esame dei disegni di legge delle opposizioni, ha deciso di prendere e perdere tempo con una legge delega che non ha mai esercitato». Eccolo quello qui il premierato della destra. A decidere è sempre e comunque l’esecutivo. Nella persona di Meloni.
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