- Il Senato ha eletto i 10 presidenti delle commissioni, solo due donne: la leghista Bongiorno alla Giustizia e la azzurra Craxi agli Esteri, nessuna per Fratelli d’Italia. Alla Camera, invece, tutti e 14 i presidenti sono uomini.
- Il tema della scarsa rappresentanza femminile dentro al partito della presidente del consiglio circola anche nelle chat delle parlamentari, che non hanno accolto bene l’esclusione da tutti i ruoli.
- Lo stesso accadrà, molto probabilmente, anche nell’elezione dei laici del Csm, prevista per il 13 dicembre. Il regolamento scritto dal presidente della Camera non garantisce la parità di genere, come chiede la riforma Cartabia, dunque l’esito rischia di essere lo stesso del 2018, con tutti uomini eletti.
Si è conclusa la tornata di nomine parlamentari con l’elezione dei 10 presidenti delle commissioni al Senato, dopo i 14 alla Camera. L’esito era quello della vigilia: 5 per Fratelli d’Italia con la Affari costituzionali per Alberto Balboni; l’ex ministro Giulio Terzi di Sant’Agata per le Politiche europee; Nicola Calandrini alla Bilancio; Luca de Carlo all’Industria e Francesco Zaffini alla Affari sociali. Gli altri sono andati 3 alla Lega, con Giulia Bongiorno alla Giustizia, l’ex ministro Massimo Garavaglia alla Finanze e Roberto Marti per la Cultura. Infine, Forza Italia ha eletto agli Esteri Stefania Craxi e Claudio Fazzone all’Ambiente.
Al termine della due giorni di votazioni, però, emerge un dato: Fratelli d’Italia, il partito della prima presidente del consiglio, ha un problema di donne. O meglio di donne nei posti di vertice, visto che rappresentano circa il 30 per cento degli eletti.
Nelle commissioni alla Camera, infatti, tutti e 14 i presidenti sono uomini, mentre al Senato sono state elette due donne, Bongiorno in quota Lega e Craxi per Forza Italia. Di nuovo nessuna, invece, per FdI. Anche nella scelta del nuovo capogruppo
Il tema della scarsa rappresentanza femminile circola anche nelle chat delle parlamentari, che non hanno accolto bene l’esclusione, soprattutto dopo quel «Mi guardi», rivolto da Giorgia Meloni a Deobra Serracchiani del Pd, che la accusava di volere «le donne un passo dietro agli uomini». Ormai, però, il pasticcio è fatto.
E il csm?
Del resto, al centrodestra la questione delle quote e della garanzia di genere non è mai piaciuta e lo certifica anche la mossa del presidente della Camera, Lorenzo Fontana, in vista della prossima tornata di nomine attesa, quella per i consiglieri laici del Csm. Nemmeno a dirlo, tutti i nomi per ora circolati sono di uomini, I posti sono 10 e al centrodestra ne spetteranno 7 o 8: si tratta di nomine prestigiose e ben pagate, retribuite con 240 mila euro l’anno e per ora i più papabili sono l’ex An, Giuseppe Valentino (possibile vicepresidente) e l’ex senatore leghista Francesco Urraro.
La riforma Cartabia – oltre a ridurne lo stipendio di 100mila euro – ha però previsto che la scelta dei laici, che si svolgerà nella seduta comune del parlamento del 13 dicembre, debba avvenire sulla base di criteri di «trasparenza nelle procedure di candidatura» e «nel rispetto della parità di genere». La traduzione in regolamento di questa previsione toccava al presidente della Camera, Lorenzo Fontana, che però ha presentato alla Capigruppo un testo che difficilmente scalfirà qualcosa, sia sulla trasparenza che sul genere.
La Costituzione stabilisce i requisiti minimi di candidabilità, ovvero il ruolo di «professori ordinari di università in materie giuridiche» e «gli avvocati dopo quindici anni di esercizio effettivo», che significa che non bastano 15 anni di generica iscrizione all’albo (magari con sospensioni, come nel caso del pretendente del Movimento 5 Stelle, l’ex ministro Alfonso Bonafede, iscritto nel 2006 e sospeso per legge mentre era ministro). L’atto di Fontana aggiunge solo che i diretti interessati dovranno presentare entro il 10 dicembre «la propria candidatura» con l’autocertificazione dei requisiti di eleggibilità e lo stesso potranno fare, per conto del loro candidato, «dieci parlamentari appartenenti ad almeno due diversi gruppi parlamentari». Nessun altro requisito ulteriore di reale trasparenza. Nemmeno – come fa notare il deputato Riccardo Magi – la presentazione del curriculum per valutare la professionalità dei candidati.
Quanto al rispetto del genere, l’atto prevede solo che «deve appartenere al genere meno rappresentato al meno il 40 per cento dei candidati». Se ciò non avvenisse, il termine di presentazione verrà riaperto fino al 12 dicembre per le sole candidature del genere di minoranza.
Nulla, però, si dice se comunque l’integrazione delle candidature non vada a buon fine e quindi, con la seduta comune convocata, si procederà comunque alla votazione. Inoltre, non viene stabilito un meccanismo di voto che consenta di garantire l’effettiva parità di genere prevista dalla nuova legge, come per esempio il meccanismo della doppia preferenza di genere diverso nella votazione.
Risultato: con questo regolamento, l’esito più probabile sarà che i candidati tornino ad essere tutti uomini, esattamente come già è stato nel 2018.
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