- La riforma dell’ordinamento giudiziario, terzo pilastro delle riforme della giustizia indicate nel Pnrr, è ferma in un limbo a palazzo Chigi. Intanto, però, a via Arenula la ministra è costretta a fare il parafulmine di questo ritardo.
- La messa in pausa della riforma sarebbe maturata in concomitanza con il concretizzarsi silenzioso della prospettiva di Draghi al Quirinale. I candidati possibili sono Franco, Colao e Cartabia, ma ora ad essere stata depennata sarebbe la ministra della Giustizia.
- Il nome preferito sarebbe quello di Colao e per garantire un passaggio senza intoppi la maggioranza deve rimanere compatta. Per questo va evitato un dibattito su un tema divisivo come la giustizia, anche a costo di mettere in una posizione scomoda la ministra.
Se esiste una linea comunicativa del governo di Mario Draghi, è quella di lasciar parlare i fatti. Per questo i silenzi del presidente del Consiglio fanno rumore e anche ciò che sceglie di non fare è eloquente.
La premessa è importante per capire le ragioni di quella che apparirebbe altrimenti una scelta inspiegabile.
La riforma dell’ordinamento giudiziario, terzo pilastro delle riforme della giustizia indicate nel Pnrr, è ferma in un limbo a palazzo Chigi. E’ così da Natale, quando è stato presentato il maxiemendamento ministeriale prodotto dalla guardasigilli Marta Cartabia, limando ogni parola per limitare lo scontro (che pure sarà difficilmente evitabile) con la magistratura. La commissione Giustizia della Camera, dove il provvedimento è incardinato, non aspetta altro che calendarizzarla.
Ma a mancare è il proverbiale ultimo miglio: perchè possa cominciare il suo iter in commissione, palazzo Chigi deve inserire il testo nell’ordine del giorno di un consiglio dei ministri, in modo che sia approvato. Un passaggio poco più che formale sulla carta, eppure nulla si muove e dal ministero della Giustizia filtra solo che la riforma è pronta ormai da un mese, ma spetta al presidente del Consiglio stabilire l’ordine del giorno del consiglio dei ministri.
Intanto, però, a via Arenula la ministra è costretta a fare il parafulmine di questo ritardo. Oggi Cartabia è in Senato a presentare la sua relazione sulla giustizia, il 21 gennaio presenzierà all’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione e non potrà che certificare il dato di realtà: l’emendamento è pronto, spetta a Draghi sciogliere le riserve. Anche se, nella bozza della relazione, la ministra fa riferimento alla sua disponibilità “ad accelerare il corso di questa riforma e a sollecitarne l'esame da parte dei competenti organi del Governo".
Nell’attesa, Cartabia deve parare gli attacchi a mezza bocca delle toghe, che si agitano intorno a comunicazioni per ora solo orali e sono pronte a chiedere modifiche al testo, ma anche del parlamento che scarica sul governo la responsabilità della lentezza. Di più, incassa anche le accuse di chi ha ipotizzato che dietro lo stop ci sia la volontà della ministra di preservarsi in vista di ambizioni quirinalizie.
Invece, potrebbe essere l’esatto contrario e questo limbo indicherebbe un disegno politico molto diverso.
La staffetta
La messa in pausa della riforma, infatti, sarebbe maturata in concomitanza con il concretizzarsi silenzioso della prospettiva di Draghi al Quirinale. In questa ipotesi, che in questi giorni sta prendendo sempre più quota, si riaffaccia il totonomi per chi dovrebbe prendere il posto dell’attuale premier a palazzo Chigi.
I candidati possibili sono sempre gli stessi: Daniele Franco, Vittorio Colao e Marta Cartabia. Solo che nelle ultime settimane il nome sarebbe stato cancellato dalla lista.
Secondo fonti di palazzo Chigi, il rapporto tra Draghi e Cartabia si sarebbe raffreddato. Il gelo viene smentito da via Arenula, dove si garantisce che il dialogo tra i due rimane fitto e che anche ieri si è svolto un colloquio in preparazione della relazione al Senato.
Eppure, il termometro interno al governo dice che i contendenti sono rimasti in due – Franco e Colao – ma che la preferenza di Draghi andrebbe al ministro per l’Innovazione tecnologica. Un tecnico sì, ma decisionista nello stile dell’attuale premier e senza la timidezza del pure più esperto Franco. Ad incoronarlo oltreoceano, è stata un’analisi del New York Times - in cui Colao è ampiamente citato - che spiega come l’ancora di salvezza dell’Italia sia Draghi e per questo il suo posto è il Quirinale. Per Cartabia, dunque, rimarrebbe il ministero di peso della Giustizia in quota tecnica anche in caso di rimpasti, ma nulla in più.
Tutto questo è legato allo stand by della riforma dell’ordinamento giudiziario, perchè spiega come palazzo Chigi intende gestire l’attuale delicato passaggio politico: senza strappi. La maggioranza deve rimanere compatta e per questo va evitato un dibattito su un tema divisivo come la giustizia, anche a costo di mettere in una posizione scomoda la ministra. In questo momento le priorità sono diverse e vanno conservati altri equilibri, in modo da costruire il prossimo governo “del presidente” senza far implodere nel caos il parlamento.
Del resto, a palazzo Chigi il pragmatismo è la prima regola: la riforma dell’ordinamento giudiziario è sì nel Pnrr, ma per raggiungere l’obiettivo di velocizzare i processi i due ddl essenziali erano quello civile e quello penale, entrambi approvati. Dunque, il fronte europeo è tranquillo perchè il ddl sul Csm, anche se formalmente è equiparato agli altri due, ha un peso specifico inferiore.
Di qui la scelta di palazzo Chigi in favore del non fare e del silenzio: eloquenti, una volta collocati nel quadro complessivo.
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