- Il discorso di Liliana Segre, testimone della Shoah, e il passaggio del testimone al senato con il postfascista La Russa. Eletto da una pattuglia di voti provenienti dalla minoranza. Renzi indiziato numero uno nega. Forza italia in crisi di nervi.
- Letta: «Irresponsabili, un regalo alla maggioranza che era già divisa».
- Calenda: «Non siamo stati noi, non avremmo mai votato un postfascista». Renzi: «Non sono stato io, altrimenti l’avrei rivendicato con orgoglio».
Il passaggio di testimone alla presidenza di palazzo Madama fra Liliana Segre, senatrice a vita, sopravvissuta dell’olocausto e testimone della Shoah, e Ignazio La Russa, un ex missino con un pedigrée da destra radicale lungo una vita e una collezione di memorabilia del Fascio. Il colpo di una banda di ignoti dell’opposizione – vedremo se sono davvero così ignoti – che fa eleggere il presidente “postfascista” alla prima votazione, mettendo fuori gioco Forza Italia.
Sono le due fotografie della prima giornata delle diciannovesima legislatura; a cui vanno aggiunti alcuni fotogrammi rubati dagli smartphone: un passaggio di La Russa accanto a Silvio Berlusconi, senatore decaduto e ora tornato negli scranni del senato, che lo apostrofa malamente, sul labiale si legge distintamente un “vaffa”. E una sigaretta nervosissima nel cortile della camera consumata da Giorgia Meloni, la premier in pectore che non riesce a mettere insieme un’ipotesi di governo.
La vittoria di Pirro
In questo primo giorno, la destra-destra segna un gol. Ma rischia di essere la più classica vittoria di Pirro. Meloni in effetti ne esce più forte: ha piegato l’alleato forzista, ed è probabile che se non avesse avuto la certezza dell’elezione del suo candidato alla presidenza del senato non lo avrebbe lanciato a vuoto; insomma quando Forza Italia annuncia la non partecipazione al voto, Meloni non può non essere sicura che l’operazione riuscirà comunque.
Ma la maggioranza è già ingrippata: la squadra di governo non c’è ancora (il ministero delle finanze alla fine andrebbe al leghista draghiano Giancarlo Giorgetti, che ancora era renitente alla leva); la pattuglia azzurra, che si è impuntata per piazzare al governo Licia Ronzulli – a cui evidentemente l’anziano leader non può dire di no – è in piena crisi di nervi. Eppure il colpo della banda di ignoti mette allo scoperto anche le divisioni dell’opposizione. Già volano i sospetti e gli stracci, uno spettacolo degno dei 101 incappucciati che nel 2013 abbatterono la candidatura di Prodi al Colle.
I voti inaspettati
A La Russa arrivano 19 voti inaspettati: non del tutto, in realtà alla somma dei senatori di FdI e Lega (99) vanno aggiunti due sì “moderati”, due dal Maie, forse due sì da Berlusconi e Casellati che per ragioni istituzionali partecipano al voto. Ma i conti non tornano lo stesso, l’aiutino dell’opposizione è innegabile.
Per Berlusconi a organizzarlo è stato Matteo Renzi. E lo stesso per il segretario Pd Enrico Letta, che fa circolare una nota che è un’arringa d’accusa: parla di «giochi e accordi sottobanco», di «miopia e calcolo bieco», sembra «il sequel del giorno dell’affossamento dello Zan: tutti sanno chi c’è dietro, Matteo Renzi».
Veleni all’opposizione
Lui, il presunto colpevole, fuori dall’aula nega e straparla con i giornalisti: «Non sono stato io, altrimenti l’avrei rivendicato con orgoglio». Ma poi si precipita a parlare d’altro: è Letta il colpevole della vittoria delle destre per via del mancato accordo elettorale con lui, annunciato – ricorda – a mezzo stampa. Diciannove voti sono troppi anche per la smilza pattuglia di Italia viva-Azione (nove senatori). Tanto più che appare sincero l’indignatissimo Carlo Calenda: «Non siamo stati noi, non avremmo mai votato un postfascista».
All’opposizione si scatena il tutti contro tutti, veleni in un ventilatore: un anonimo democratico fa scivolare l’ipotesi di un concorso M5s, anonimi Cinque stelle mettono nell’orecchio dei cronisti la pulce di un malumore da parte della corrente Base riformista del Pd. Altri segnalano, come indizio, un incontro mattutino fra Renzi (Iv), Franceschini (Pd) e Patuanelli (M5s).
Gli incarichi all’opposizione
«La destra crolla alla prima prova dei fatti, ma sicuramente c’è una parte dell’opposizione», tuona Simona Malpezzi, presidente uscente dei senatori Pd, «che ha fatto da stampella alla maggioranza e ha mandato messaggi rispetto ai prossimi passaggi».
L’allusione è agli incarichi che spettano all’opposizione: mercoledì scorso Renzi ha denunciato «un patto» fra Pd e M5s per spartirsi quelli principali. Invece Iv vuole per Maria Elena Boschi la presidenza della vigilanza Rai, o almeno una vicepresidenza della camera. Intanto dal Pd vengono cronometrati come al Var i filmati dei votanti: alcuni renziani, Renzi in testa, sembrano restare troppo tempo sotto il catafalco, potrebbe essere il tempo utile a scrivere il cognome trisillabo del candidato presidente.
La verità resta sotto le spesse tende di quella riservatissima cabina elettorale. Quello che invece si vede alla luce è la crisi a specchio di maggioranza e minoranza. Rotti gli uni e gli altri, incapaci di iniziare a governare i primi, e di fare opposizione gli altri.
Nel pomeriggio solo Pd e Azione si ritrovano alla manifestazione contro l’invasione di Mosca sotto l’ambasciata russa. Il Pd medita, per stamattina, di scrivere un nome nella scheda per l’elezione della presidenza della camera: ma se lo fanno solo i democratici sembrerà che non si fidano di sé stessi. E siamo solo il primo giorno della diciannovesima legislatura.
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