Volta la carta. È la canzone di Fabrizio De André che Andrea Orlando ha scelto per la chiusura della sua campagna elettorale («Il fante di cuori che è un fuoco di paglia/Volta la carta il gallo ti sveglia...»).

Ma forse avrebbe dovuto scegliere uno degli ultimi testi scritti dal cantautore genovese con il concittadino Ivano Fossati, Anime salve: «Sono state giornate furibonde/senza atti d’amore /senza calma di vento /solo passaggi e passaggi/passaggi di tempo».

Così appare la scena politica nazionale alla vigilia del test del voto regionale in Liguria, domenica e lunedì. Un momento incerto «di nuvole e sole» (ancora De André), in cui gli spostamenti di voto sono impercettibili, uno zero virgola qualcosa in più o in meno, quasi da Prima repubblica, così come è stabile il consenso verso il governo Meloni, invariato, anche se ampiamente sotto il cinquanta per cento. Quello che non cambia è il partito del non voto che unisce la metà degli italiani. Ma se nulla cambia, a essere contento è chi sta al governo, interessato ad amministrare l’esistente, alla conservazione di se stesso.

Uno sparo nel buio

In questo immobilismo anche uno sparo nel buio può fare effetto. È la sensazione che fa il video di un genovese illustre, Beppe Grillo, che va a testa bassa contro «la bassa democrazia» del mago di Oz (Giuseppe Conte), a un pugno di ore dall’apertura delle urne.

Ma anche l’ex premier ha scelto la vigilia del voto per strappare il contratto con il fondatore del Movimento 5 stelle e per lanciarsi a tutto vento verso un nuovo soggetto a sua immagine e somiglianza. Invece di cercare voti per Orlando si sono infilati nella pugna, incuranti di un eventuale risultato negativo in Liguria.

Rese dei conti interne, a cuore aperto, mentre si vota, avvengono anche nel monolite Fratelli d’Italia, dentro la corte di re Giorgia, tra gli alti dignitari, i ciambellani, i maggiordomi, prendono la forma delle sfide all’Ok Corral nel Transatlantico davanti ai cronisti o delle chat e delle notizie sui rivali distribuite sottobanco.

«Infami», li ha definiti la premier Meloni, e non si riferiva ai giornalisti, né tantomeno ai gradini, ma ai suoi parlamentari. Ma perfino le invidie, gli odi tracimanti all’esterno sono la prova che il sistema meloniano, dopo due anni di governo, comincia a percepirsi come insostituibile, a tal punto da permettersi il lusso di abbandonarsi alle faide, per riscrivere le gerarchie di comando interno, l’unico orizzonte rimasto dopo il rinvio dei grandi propositi di cambiamento.

Coalizione inaffidabile

La polemica interna alle opposizioni produce l’effetto di rendere tutta la coalizione inaffidabile. Chi ha rotto la foto di gruppo che Elly Schlein ha cercato faticosamente di costruire dopo le vittorie del giugno 2024, con la campagna d’estate e d’autunno, il voto regionale, la raccolta di firme sull’autonomia differenziata in vista del referendum, punta a impedire che una vittoria netta alle elezioni regionali segni un punto di non ritorno per la costruzione di un’alternativa alle destre.

Mentre, all’opposto, la guerra di posizione dentro la maggioranza non indebolisce ma rafforza il mito della premier solitaria, che si presenta come una spanna sopra tutti gli alleati, i ministri del governo, gli oscuri travet del partito che due anni fa sono assurti a ruoli per cui sono inadeguati.

È il meccanismo per cui l’ex presidente ligure Giovanni Toti è sparito dalla narrazione delle destre, da perseguitato della giustizia a orologeria a signor nessuno dopo il patteggiamento: eppure ha governato la regione per nove anni con il centrodestra. In una situazione bloccata, paludosa, senza ricambio d’aria, qualsiasi fallimento viene perdonato a chi sta al potere, anche da un sistema mediatico in gran parte ossequioso. «Coltivando tranquilla l’orribile varietà delle proprie superbie, la maggioranza sta»: ancora De André. Qualsiasi divisione ricade invece sulle opposizioni come una tromba d’aria, un ciclone, quello invocato Grillo contro Conte. C’è, naturalmente, un’altra ipotesi. Che vinca Andrea Orlando, in una corsa che solo letture superficiali potevano all’inizio considerare scontata. E che dal voto in Liguria arrivi un segnale diverso, per riaprire i giochi nello stagno della politica nazionale. In direzione ostinata e contraria.

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