Nel disegno di legge approvato dalla Camera, il governo riduce gli incentivi all’imprenditoria femminile. Ma tutto il provvedimento è collage di risorse tolte altrove e dispensate per elargire qualche mancia
Una pioggia di mancette su vari settori, sventolando il vessillo del “made in Italy”. Così è stato ribattezzato dalla destra il disegno di legge approvato ieri alla Camera. Ma con un cortocircuito: il governo Meloni riduce di 25 milioni di euro gli incentivi per l’imprenditoria femminile e introduce delle restrizioni alla platea delle aziende beneficiarie. Il costo complessivo del provvedimento sul Made in Italy ammonta a oltre un miliardo di euro, attingendo da alcuni plafond finora inutilizzati dal governo. Ma manca un piano organico di politica industriale.
Il testo prevede infatti almeno 30 tra decreti attuativi e regolamenti per garantire la piena esecuzione delle disposizioni. Ed è un ulteriore avvitamento dell’esecutivo, dopo che sulla manovra ha dovuto studiare gli emendamenti con il bilancino, a cominciare da quelli per rimediare ai tagli delle pensioni dei medici. Al momento è confermato che i lavori sulla finanziaria inizieranno in commissione Bilancio al Senato da lunedì prossimo.
È necessaria la predisposizione di tutti i pacchetti di interventi, firmati dall’esecutivo, sulla legge di Bilancio. Nel disegno di legge Made in Italy, ora trasmesso al Senato per avere il via libera definitivo, le risorse sono state invece reperite raggranellando da vari capitoli e collocate in maniera strategica per piazzare bandierine.
Niente di più. Ma tanto basta al ministro delle Imprese, Adolfo Urso, che ha ottenuto lo strapuntino: portare a casa un provvedimento utile a rivendicare la valorizzazione delle eccellenze italiane. Urso ha addirittura parlato di «svolta per il tessuto industriale nazionale».
Meno soldi alle donne
Al netto delle dichiarazioni entusiaste della destra, il provvedimento è – nella migliore delle ipotesi – un’operazione di immagine. In alcuni casi anche mal riuscita. Basti pensare ai fondi per l’imprenditoria femminile. Il finanziamento viene drasticamente ridimensionato. «Siamo di fronte al primo governo della storia di questo paese che vede una premier donna e, per la prima volta, si inserisce un nuovo fondo con una dotazione decisamente più bassa e con una platea ristretta rispetto a prima», ha denunciato alla Camera la vicepresidente del Partito democratico, Chiara Gribaudo.
Nel dettaglio, il ddl Made in Italy stanzia 15 milioni di euro per il 2024, creando una nuova leva di finanziamento; 10 milioni di euro saranno impiegati per le agevolazioni fiscali e gli altri 5 milioni per i contributi a fondo perduto. C’è quindi un taglio netto di 25 milioni di euro rispetto alla legge di Bilancio 2021, che metteva sul piatto 40 milioni di euro. Una somma a cui si sono aggiunte altre risorse provenienti dal Pnrr sull’apposito capitolo.
Ma non è solo una questione di soldi. La norma introduce infatti dei requisiti più stringenti per le imprese. Il governo Meloni rimanda a una norma del 2000, secondo cui le società devono essere costituite da non oltre cinque persone, per accedere agli incentivi. Un range che esclude le realtà già ben avviate, che potrebbero necessitare di investimenti per l’innovazione.
E soprattutto vengono tagliate fuori dall’accesso al fondo le professioniste e le lavoratrici autonome, che in precedenza potevano far ricorso allo strumento di sostentamento pubblico. «È un’operazione spot che non aiuta le donne», ha sintetizzato Gribaudo.
Corto respiro
Ma il disegno di legge presenta molti altri elementi singolari, è la quintessenza della logica del governo: inseguire la propaganda a discapito della lungimiranza. La gran parte delle misure ha un corto respiro, di uno o due anni. Il provvedimento è «una sorta di legge mancia», ha ironizzato l’ex ministra Maria Elena Boschi, oggi deputata di Italia viva.
Le mance vengono distribuite a vari comparti, dalla nautica di diporto alla filiera del legno, fino al comparto fieristico con dei micro-finanziamenti. La novità più impattante, e celebrata dalla maggioranza, è il fondo nazionale del Made in Italy. Il miliardo di euro piazzato su questo capitolo è stato ottenuto con un lavoro di collage di risorse sottratte ad altre voci. Un esempio?
Un vecchio fondo per le start up (introdotto dai precedenti governi) da 300 milioni di euro, che Urso ha tenuto fermo fin dall’insediamento del governo Meloni. Insomma, non ha mai impiegato un euro – a danno appunto di chi voleva fondare aziende innovative – per poi riversare tutto nel nuovo contenitore, che porta la sua firma. Ha quindi messo il 70 per cento, 700 milioni di euro appunto, per l’anno in corso (ormai finito) e i residuali 300 milioni di euro per il 2024.
Per il futuro si vedrà. Le perplessità, comunque, riguardano anche la corposità del fondo. «Senza scomodare quello norvegese (dotato di 32 miliardi di euro, ndr) che obiettivamente gioca un altro campionato, non c’è paragone neppure con la dotazione di quello irlandese a 15 miliardi, maltese a 17, spagnolo a 15», osserva Vinicio Peluffo, deputato del Pd.
La stortura di elargire finanziamenti per il 2023, agli sgoccioli, è un’abitudine del progetto Made in Italy, targato Meloni-Urso. Una tendenza che ha provocato qualche ilarità nelle opposizioni. C’è il caso dello stanziamento delle «misure di incentivazione della proprietà industriale», pensato per favorire la brevettazione.
Per l’anno in corso sono previsti 8 milioni di euro, mentre per il prossimo la spesa sarà di solo un milione. Al governo è stato fatto notare che sarebbe stato più logico fare l’inverso: un milione subito e la cifra più alta per il 2024. «Capisco che non sia abitudine di questa maggioranza fare cose con senso, però sarebbe opportuno almeno dare una spiegazione», ha osservato il renziano Roberto Giachetti. Il governo non ha voluto sentir ragioni e i deputati di destra hanno eseguito.
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