- Tra tre mesi si voterà per le elezioni regionali in Lombardia, un baluardo della destra dove al Pd e ai suoi alleati non è mai riuscito di vincere una singola elezione
- La spaccatura nel fronte del centrodestra, fra Attilio Fontana e Letizia Moratti, dovrebbe essere l’occasione ideale per rovesciare questa tendenza storica. E invece sta creando più problemi alla sinistra che alla destra
- Le grandi società demoscopiche non hanno ancora pubblicato sondaggi sulle regionali, ma le recenti elezioni politiche confermano che i rapporti di forza in regione non sono cambiat
Tra tre mesi si voterà per le elezioni regionali in Lombardia, un baluardo della destra dove al Pd e ai suoi alleati non è mai riuscito di vincere una singola elezione. Il centrosinistra ha scelto il suo candidato: l’ex vicesindaco di Milano e oggi eurodeputato Pierfrancesco Majorino. Il centrodestra ricandida il presidente uscente Attilio Fontana. Ma la sua coalizione si è spaccata, con l’ex vicepresidente Letizia Moratti che correrà sostenuta da Azione di Carlo Calenda.
Sembra una situazione ideale per rovesciare una tendenza ormai storica. Ma l’egemonia della destra è così solida che la frattura a destra sta causando più problemi al centrosinistra, dove ha fatto scoppiare un dibattito sul possibile appoggio a Moratti. Anche questa volta, sembra che le cose in Lombardia non siano destinate a cambiare.
Tra male e malissimo
«L’area del lombardo-veneto è come quella tosco-emiliana», dice Jacopo Tondelli, scrittore e direttore del sito Gli stati generali, nato e cresciuto nella periferia milanese, «sono gli unici due blocchi che non hanno mai cambiato orientamento politico dal 1995. Tutte le altre ragioni hanno cambiato colore almeno una volta».
Le grandi società demoscopiche non hanno ancora pubblicato sondaggi sulle regionali, ma le recenti elezioni politiche, con il centrodestra 25 punti sopra Pd e alleati, confermano che i rapporti di forza in regione non sono cambiati. «Nonostante quel che si sente su Moratti o non Moratti, Terzo polo o non Terzo polo, il centrodestra resta sempre avanti di una ventina punti»
Negli anni, il centrosinistra ha provato quasi ogni formula politica per cambiare questo stato di cose. Ha candidato cattolici di sinistra, come l’ultimo segretario della Dc Mino Martinazzoli, membri dell’apparato di partito forti sul territorio, come il presidente della provincia di Milano Filippo Penati, candidati civici di alto profilo, come Umberto Ambrosoli, e centristi liberali in grado di attirare voti di centrodestra, come il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Con qualsiasi alchimia, il centrosinistra è sempre andato tra il male e il malissimo. Dal 62 a 31 per cento inflitto a Martinazzoli nel 2000, ai “soli” quattro punti di distacco ottenuti da Ambrosoli nel 2013, quando lo scandalo di corruzione che aveva fatto cadere l’ultima giunta dello storico presidente Roberto Formigoni, aveva fatto sperare nel ribaltone.
Ragioni di un successo
«La chiave del successo del centrodestra è il pragmatismo dei lombardi», dice Roberto Castelli, lecchese, tre volte ministro nei governi di centrodestra. Piccolo imprenditore della provincia lombarda, decide di iscriversi alla Lega nel 1986, dopo un viaggio in Irpinia dove, racconta, vede lo spreco dei fondi pubblici per la ricostruzione post terremoto. «Ecco dove vanno i soldi delle nostre tasse», dice di aver pensato.
Castelli è un testimone di prima mano degli anni che hanno visto l’instaurarsi dell’egemonia di centrodestra. È già un dirigente del partito quando alle regionali del 1990 la Lega arriva seconda, subito dopo la Dc. «Abbiamo approfittato dell’ondata di anti-politica che stava nascendo: già allora si percepiva l’affarismo della classe politica». Cinque anni dopo, la Lega controlla il presidente di regione, il sindaco di Milano e il presidente della provincia. Un «momento magico» per il partito, dice Castelli, andato sprecato per l’inesperienza della classe politica leghista.
Alle elezioni dell’anno dopo, infatti, sarà eletto presidente un compagno di scuola di Castelli, Roberto Formigoni che per 18 anni guiderà la regione con Forza Italia partito di maggioranza e la Lega alleato di minoranza. Con l’eccezione delle regionali dl 2018 e delle politiche del 2022, il partito di Berlusconi resterà sempre il primo in Lombardia. Alle ultime elezioni, con Lega e Forza Italia in crisi, è Fratelli d’Italia a piazzarsi primo tra le preferenze dei lombardi. Il centrosinistra, come sempre, non tocca palla.
Nonostante gli elementi folcloristici della Lega – la tutela dei dialetti, l’invenzione della Padania – il voto lombardo non è mai stato identitario, ma fluido, pur muovendosi sempre dentro i confini del centrodestra. «I lombardi non esistono e la Lombardia è una bellissima invenzione – dice Tondelli – La Val Trompia è diversa dall’Oltrepò pavese, mentre Mantova è un città emiliana. La genialità di Miglio e Bossi è stata fingere di credere nel Dio Pò, per dire che in realtà si erano stufati di pagare le tasse».
È una dinamica che europea che i sociologi conoscono bene: con l’arrivo della globalizzazione e la crescente incapacità dei governi centrale di produrre risultati in politica economica, nelle regioni più ricche del continente si sono sviluppate pulsioni autonomiste. Le rivendicazioni sono a volte identitarie, come in Catalogna, ma il cuore della questione è mantenere le imposte pagate sul territorio che le genera.
«Il lombardo vuole una società ordinata. Chiede servizi, chiede che ci sia una tassazione ragionevole», dice Castelli. Che sia targato Lega o Forza Italia, il centrodestra si dimostra sempre più credibile dei rivali nel presentare questo messaggio.
Il caso Milano
Per Alessandro Coppola, professore di pianificazione al Politecnico di Milano, la Lombardia è un arcipelago complesso e in evoluzione. «Ci sono zone molto dinamiche, altre con processi di deindustrializzazione. Come approssimazione generale, l’est è più dinamico di ovest». In mezzo, la grande area urbana di Milano è essa stessa un calderone di complessità con un centro ricchissimo e integrato con i circuiti internazionali dell’economia dei servizi, aree semi-periferiche che si gentrificano ed alcune periferie metropolitane vere e proprie dove sono ancora vive le conseguenze della deindustrializzazione e crescenti i problemi sociali.
Milano è la cartina tornasole degli smottamenti subiti dalla geografia politica lombarda. Un tempo cittadella socialista circondata da una periferia comunista, a partire dal 2011, con l’elezione del sindaco di sinistra Giuliano Pisapia, Milano è divenuta un bastione del Pd, al pari di altri centri di medie dimensioni. «Capoluoghi un tempo bianchi e successivamente orientati a destra come Bergamo ora sono saldamente di centrosinistra», dice Coppola. Persino Varese, la città di Bossi e della prima generazione di leghisti, alle ultime due elezioni è stata conquistata dal centrosinistra. Le aree montane, le valli e le vasta aree urbanizzate fuori dalle grandi città, ricorda Coppola, sono ora la vera spina dorsale dell’egemonia del centrodestra.
Questa geografia non solo non è in grado di garantire al centrosinistra una maggioranza, ma potrebbe nascondere un ulteriore articolazione dello schieramento che rischia di costruire l’ennesima cattiva notizia per lo schieramento progressista.
A Milano, ad esempio, le recenti elezioni politiche hanno mostrato un forte radicamento dei centristi di Azione-Italia viva nel cuore della città e un centrosinistra comparativamente più forte nelle aree semi-periferiche. «I centristi per ora sembrano scommettere su questa riarticolazione interna al blocco prevalentemente di ceti medi e superiori che sostiene il centro-sinistra – dice Coppola – Gli effetti potremmo vederli già alle prossime comunali», quando la presenza di due candidati provenienti dall’area non-centrodestra potrebbe interrompere un quindicennio di governo cittadino progressista. Della fine dell’egemonia di centrodestra, per ora, non si vedono nemmeno i primi segnali.
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