Ognuna delle due parti in causa, nel bipolarismo che pare stia affermandosi di nuovo, vede l’avversario come un barbaro. Entrambe le parti accusano l’altra di violenza e corruzione; ma se l’avversario smette di essere un barbaro, che si fa?
Una famosa poesia di Kavafis parla di un paese in cui tutte le attività civili e legislative sono sospese perché si sta aspettando l’arrivo dei barbari; ma alla fine della giornata i barbari non sono arrivati, anzi si comincia a mormorare che di barbari non ce ne siano più. «E ora?», si chiedono l’un l’altro i cittadini guardandosi intorno smarriti, «in fondo quella gente era una soluzione».
La poesia mi è tornata in mente durante la campagna elettorale appena trascorsa: che le elezioni siano viste periodicamente come «una soluzione»? A questo si sta riducendo la democrazia rappresentativa?
Destra e sinistra
Ognuna delle due parti in causa, nel bipolarismo che pare stia affermandosi di nuovo, vede l’avversario come un barbaro. Le destre immaginano “la Sinistra” come un insieme di riccastri elitari e complottisti, che hanno in mano i gangli della finanza e della comunicazione, che si ritengono migliori degli altri per diritto genetico, che vogliono imporre una neo lingua insensata e un’alimentazione a base di scarafaggi e grilli (l’altro giorno Matteo Salvini ha detto «che se li mangi Soros»: chissà perché un ebreo novantaquattrenne dovrebbe essere interessato a un cibo così innovativo e così poco kosher), che tramite la “teoria gender” confondono tra maschio e femmina, che esagerano i disastri climatici per guadagnarci sopra, che fanno passare per processo di liberazione il totalitarismo più sanguinario della Storia, che ingannano la povera gente con la retorica della bandiera rossa.
Le sinistre immaginano “la Destra” come un insieme di furbastri ipocriti che esibiscono un’aria da vittima mentre in realtà non sono che i manutengoli delle classi abbienti, che vivono carichi di rancore e non vedono l’ora di vendicarsi, che si ammantano di conservatorismo “nobile” mentre non riescono a troncare le loro radici fasciste, che onorano l’obsoleta triade Dio-Patria-Famiglia e inneggiano a Salò, che subdolamente vogliono piegare la costituzione democratica alterando l’equilibrio tra i poteri, che si fanno schermo di una donna per aggredire i diritti delle donne, che odiano i migranti e sono ancora sensibili alla favola della sostituzione etnica, che hanno letto pochi libri e quei pochi non li hanno capiti. Entrambe le parti accusano l’altra di violenza e corruzione; ma se l’avversario smette di essere un barbaro che si fa?
Lo spettacolo è la soluzione
Le campagne elettorali sono una fiera periodica che fa piovere su chi vi partecipa un brivido di impegno e militarizzazione, trasformando le reti televisive e i social in arene carnevalesche dove lo sberleffo dell’avversario è la norma.
Qualcuno naturalmente ci prova a parlare di leggi, di progetti, di alleanze, ma i protagonisti più pittoreschi finiscono per prevalere, perché lo spettacolo è la soluzione. Giustamente Carlo Calenda faceva notare che un suo post serio sulla separazione delle carriere in magistratura ha raccolto cinquantamila like, mentre la sua dimostrazione pratica a Salvini su come si beve l’acqua minerale senza farsi andare il tappo sul naso se n’è guadagnati un milione e mezzo.
La soluzione consiste nel sentirsi cittadini appassionati per almeno un mese l’anno (data la frequenza delle elezioni di ogni ordine e grado), indipendentemente dall’organismo politico per il quale si va a votare, che sia un piccolo comune o la Nazione o un intero continente. L’importante è che ci siano i barbari contro cui lanciare poderose e rigeneranti invettive.
È un gioco di ruolo, ma è un gioco a cui sempre meno persone hanno voglia di giocare; di solito funziona che ci sono tanti più astenuti quanto più la votazione è considerata lontana dagli interessi particolari degli elettori. Sarebbe molto utile sapere quanti degli astenuti hanno invece seguito, divertendosi, i dibattiti televisivi e le maratone, appassionandosi diciamo così per conto terzi. Facendo il pubblico, che alla fine è la cosa che un intero sistema culturale gli chiede di fare.
Le categorie di astenuti
Ci sono almeno tre categorie di astenuti: c’è il “pacificato”, quello che in fondo sta bene come sta e spera che promesse e minacce dei politici alla fine sposteranno ben poco; c’è il “disgustato”, che non ne può più delle ruberie e degli inganni della classe politica («tutta uguale»), degna più di insulti che di appoggio; c’è il “dimenticato”, che non crede più che qualcuno possa aiutarlo. (Forse si potrebbe aggiungere, ma poco influente sul piano statistico, il “raffinato”, quello che ne sa più degli altri e si considera già oltre la democrazia).
Mi accorgo che la lista di participi e aggettivi potrebbe allargarsi: a chi è solo stanco, o indaffarato, o troppo felice o troppo infelice per andare a votare. È un luogo comune sostenere che se tu non ti occupi di politica, la politica si occuperà di te; magari fosse solo la politica.
Le guerre favoriscono la polarizzazione, in guerra davvero ci sono i nemici e se tu non li ammazzi ti ammazzano loro. Quante sono le metafore belliche a cui ci siamo abituati? E non ci fa più effetto che per aprire ogni porta o fare qualunque cosa abbiamo bisogno di una parola d’ordine (detta password)? È tutto l’impianto del digitale che funziona per opposizioni binarie, acceso/spento, pollice alzato/pollice verso.
Tra bene e male
Negli anni Cinquanta del secolo scorso furono molti gli intellettuali, da Montale a Thomas Mann, che rimpiangevano il periodo dei regimi totalitari; almeno lì era facile scegliere tra bianco e nero, tra bene e male, tra luce e buio (Koestler se l’erano letto), bastava una «decenza infinitesima». Poi è cominciato il periodo del grigio, delle sfumature; o peggio, il tempo dell’ossimoro permanente, del nero biancore e della candida nerezza. E se i barbari non arrivassero, se invece tornasse semplicemente la Storia?
L’ondata di destra si abbatterà sulle coste del nostro convivere civile, i populismi e i nazionalismi porteranno nuove guerre, poi nel dopoguerra si arriverà a più nuove e per ora imprevedibili combinazioni.
La sinistra ha capito che se non vuole essere il partito della Ztl deve lasciare sullo sfondo questioni difficili come il cambiamento di sesso negli adolescenti, o la gestazione per altri a pagamento, e mettere in primo piano i diritti sociali, perché il bisogno della dignità materiale lo capiscono tutti.
La destra dovrà per forza lasciare per strada i saluti romani e le acrobazie semantiche del generale Vannacci, dovrà proporre alternative, mostrarsi forza credibile di governo. Ci saranno ibridazioni che nessuno si aspetta, innesti sorprendenti, alleanze e alternanze, com’è sempre stato e sempre sarà. Li sentiranno o non li sentiranno arrivare, la Storia non sa fare altro che accadere.
Molti avvertono un odore di 1914 in Europa, odore di incidenti che preparano trincee e baionette. (Con ben altre armi). La guerra non la vuole nessuno, ma per la pace nessuno è disposto a morire.
In quello stesso 1914 un impiegato di nome Franz Kafka si immaginava risvegliato una mattina nel corpo di un grosso schifoso insetto. Schiacciato tra un padre onnipotente e una fidanzata con la quale non avrebbe mai voluto vivere, cerca di occupare meno spazio che può: vorrebbe davvero diventare un insetto, ma la sua sia pur minima mole lo ostacola, le sue passioni predominanti sono la paura e la vergogna.
L’unica idea da cui non demorde è la sincerità: «Non c’è», scrive, «nulla che faccia più piacere al corpo che comandare alla gente»; ma allo stesso tempo conosce fin troppo bene la pulsione dell’uomo a farsi comandare, a umiliarsi godendo ai piedi di un(a) leader. Di fronte a questo non c’è nessuna soluzione: i barbari siamo noi.
© Riproduzione riservata