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Nella missiva l’arcivescovo di Canterbury chiede al cardinale Poletti un incontro «sulla situazione» della ragazza.
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Pietro Orlandi l’ha consegnata ai pm del papa. Ma Carey: «La firma è genuina, ma nel testo errori di grammatica».
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Fossero confermati i sospetti di un ennesimo depistaggio su caso Orlandi, nessuno per ora riesce a rispondere a una domanda chiave: cui prodest?
«Cara Eminenza, dopo aver saputo che lei sarà qui a Londra per alcuni giorni, mi corre l’obbligo di chiederle di venirmi a trovare nei prossimi giorni per discutere personalmente in merito alla situazione di Emanuela Orlandi di cui sono a conoscenza. Dopo anni di carteggi scritti, credo sia giusto discutere personalmente di una questione così importante. Cordiali saluti». Così scriveva l’ex arcivescovo di Canterbury George Carey al cardinale Ugo Poletti, o almeno così vuole far credere una presunta missiva «confidenziale» datata 6 febbraio 1993 e consegnata da Pietro, fratello della ragazzina scomparsa nel 1983, agli inquirenti vaticani che da qualche mese stanno indagando su uno dei cold case più noti d’Italia.
Domani ha ottenuto il documento di cui Orlandi e il suo avvocato Laura Sgrò hanno annunciato in tv l’esistenza un mese fa, e lo pubblica ora sul quotidiano e sul sito.
La lettera a Poletti
Il dispaccio firmato da Carey sarebbe stato spedito dall’allora primate della chiesa anglicana (la cui residenza ufficiale è Lambeth Palace, citata nell’intestazione) a un’indirizzo di Londra diventato celebre negli ultimi anni. Quello cioè dell’ostello femminile di proprietà dei padri scalabriniani, inserito in una delle voci contabili di una presunta nota spese firmata nel 1998 dall’allora numero uno dell’Apsa, cardinale Lorenzo Antonetti. Un documento che elenca i soldi spesi dal Vaticano per «l’allontanamento domiciliare» della Orlandi, divulgato da chi vi scrive nel 2017 e subito bollato come «falso e ridicolo» dalla Santa sede.
La missiva di Carey, rivolta a Poletti che al tempo era arciprete della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, si conclude così: «Mi faccia sapere se ha bisogno di un traduttore personale o se ne ne porterà uno con lei. Aspetto una sua risposta nei prossimi giorni». Firmato, a penna: «Cordiali saluti, George Cantuar». «Cantuar» sta Canterbury in latino: gli arcivescovi anglicani firmano così, con una croce anteposta al nome di battesimo
Fosse genuino, il messaggio sarebbe di interesse notevole, perché di fatto complementare alla storia disegnata dalla lettera di cinque pagine di Antonetti. Quest’ultima si presenta come un «resoconto sommario delle spese» sostenute dal Vaticano, redatto come documento di sintesi «delle prestazioni economiche resosi necessarie a sostenere le attività svolte a seguito dell’allontanamento domiciliare e delle fasi successive allo stesso della cittadina Emanuela Orlandi».
La pista inglese
Il rapporto (che spiega come allo stesso sarebbero stati allegati 197 pagine di fatture e resoconti bancari delle ipotetiche spese) elenca una serie di voci contabili, che portano il lettore a ipotizzare come l’adolescente, dopo essere scomparsa, sia stata in qualche modo rintracciata da uomini del Vaticano. Gli stessi, invece di restituirla alla famiglia, avrebbero – per motivi che la missiva indirizzata agli allora arcivescovi Giovanni Battista Re e Jean-Louis Tauran non spiega – nascosta in vita a Londra.
Nella prima pagina delle spese, quelle che vanno dal 1983 al 1985, una voce indica «rette vitto e alloggio 176 Chapman Road Londra», e una spesa relativa di otto milioni. Nella capitale inglese esistono tre strade con quel nome, ma nessuna con quel civico. L’estensore (sia davvero il cardinale, sia come molti credono un falsario che si è firmato a suo nome) ha probabilmente sbagliato digitazione. L’indirizzo corretto è infatti Clapham Road, dove al numero 176 dall’inizio degli anni Ottanta c’era (e c’è ancora) l’ostello femminile cattolico. Destinato alle ragazze, studentesse e lavoratrici che volevano (o vogliono) soggiornare a Londra a prezzi contenuti in semplici mini-appartamenti.
La missiva firmata «George Cantuar» consegnata da Pietro Orlandi al promotore di giustizia Alessandro Diddi, che qualche mese fa ha aperto il caso giudiziario in Vaticano per provare a dare rispose alla famiglia dopo quarant’anni di silenzi e reticenze, viene spedita da Carey a Poletti allo stesso indirizzo citato nel documento di Antonetti: Clapham Road 170, che è un altro ingresso del comprensorio.
Il dettaglio, dunque, accrediterebbe la cosiddetta “pista inglese” e la stessa missiva di Antonetti. In cui – come è noto – si lascia intendere sia la partecipazione di Poletti all’affaire Orlandi (una voce ipotizza che 80 milioni siano stati spesi per «l’attività di sua Eminenza Reverendissima cardinale Ugo Poletti»). Sia la circostanza che Emanuela sia rimasta assurdamente nascosta (in cattività?) in Inghilterra fino al luglio del 1997, quando il resoconto indica, in un’ultima nota spesa, un esborso di 21 milioni di lire per «l’attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano con relativo disbrigo pratiche finali».
Dubbi e falsari
Fosse vera la lettera di Carey sarebbe dunque il primo elemento concreto che avvalorerebbe le cinque pagine. Domani, in attesa delle conclusioni delle indagini dei magistrati di Francesco, ha cercato di verificare per quanto possibile l’attendibilità del documento. Che presenta certamente più di un interrogativo. L’inglese in molti passaggi è maccheronico. Il testo non sembra scritto da un madrelingua, ma forse da un italiano che traduce alla lettera.
Anche in questo caso, come nella lettera di Antonetti, la carta non è intestata né timbrata. I riferimenti temporali sono corretti (Carey, che aveva ottimi rapporti con Giovanni Paolo II, era arcivescovo di Canterbury da meno di due anni, Poletti era stato fatto arciprete nel 1991) ma non è chiaro per quale motivo il capo della chiesa anglicana avrebbe dovuto essere partecipe del caso Orlandi che terremotava i cattolici.
Domani ha inoltre mostrato la lettera a Carey in persona, che vive a Londra e ha 87 anni. Il suo segretario, il figlio Andrew, spiega che della faccenda di Emanuela l’ex arcivescovo «non ne sa nulla, e non crede che la questione sia mai stata sottoposta alla sua attenzione. La lettera inoltre non è autentica: è scritta su carta che non reca un’intestazione corretta, contiene errori di sintassi e di grammatica e sarebbe stata ritenuta non conforme ai criteri qualitativi per la corrispondenza di Lambeth Palace».
Invece Carey riconosce la firma in calce come autentica: «La firma sembra genuina». Fosse davvero una patacca, un falsario avrebbe dunque composto il documento, appiccicando la firma dell’ex arcivescovo (su Ebay abbiamo trovato delle cartoline in vendita dove appare un autografo di Carey molto simile) a un testo farlocco mal scritto, per poi spedire la patacca in formato digitale a Pietro Orlandi che lo ha denunciato al Vaticano.
Fonti interne alla Città Santa spiegano che la gendarmeria e i promotori non hanno ancora sentito l’arcivescovo Carey, ma chiariscono che Diddi (e papa Francesco, che è stato messo al corrente) sono «tranquilli: la lettera è un falso sesquipedale».
Fossero confermati i sospetti di un ennesimo depistaggio su caso Orlandi, nessuno per ora riesce a rispondere a una domanda chiave: cui prodest? Chi avrebbe interesse a realizzare una nuova contraffazione (che servirebbe a convalidare la pista inglese già definita una patacca dal Vaticano) e spedirla alla famiglia dopo quarant’anni dalla scomparsa di Emanuela?
Non sappiamo se Pietro ha svelato, nella lunga testimonianza fatta a Diddi qualche settimana fa, chi gli ha dato la presunta lettera di Carey. Non sappiamo dunque se si tratta di un anonimo oppure di una persona della quale è possibile risalire all’identità e che potrebbe spiegare l’origine del foglio in inglese. Ma è certo che è interesse degli Orlandi e del Vaticano fare chiarezza sull’ennesimo documento che rischia – se falso come afferma Carey – di allontanare la verità sulla sorte della ragazza.
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