La direttiva che prospetta l’eventuale «divieto di ingresso nelle acque territoriali» a due navi di ong, Ocean Viking e Humanity 1, che avevano effettuato il salvataggio di migranti: si fonda su una presunzione di colpevolezza senza riscontro nelle norme internazionali.
- La direttiva del Viminale, che prospetta l’eventuale «divieto di ingresso nelle acque territoriali» a due navi di ong, si fonda sul presupposto che certe imbarcazioni private non operino mere operazioni di salvataggio, ma possano favorire l’immigrazione irregolare.
- La “presunzione di colpevolezza” delle navi delle ong si fonda, tra l’altro, su due elementi contenuti nella norma che ha modificato il decreto Sicurezza bis.
- La norma sembra contrastare con convenzioni internazionali, tuttavia il ministro delle Infrastrutture, in questo caso Matteo Salvini, ha un potere autonomo di «limitare o vietare il transito e la sosta» di navi per «motivi di ordine pubblico»
Si torna a parlare di immigrazione, come all’epoca di Matteo Salvini al Viminale. Il primo atto del nuovo ministro dell’Interno, già capo di gabinetto di Salvini, Matteo Piantedosi, è stato quello di prospettare l’eventuale «divieto di ingresso nelle acque territoriali» a due navi di organizzazioni non governative, Ocean Viking e Humanity 1, che avevano effettuato il salvataggio di migranti.
In una direttiva, Piantedosi ha reso noto di aver informato gli stati di bandiera delle imbarcazioni (Norvegia e Germania) della condotta non «in linea con lo spirito delle norme europee e italiane in materia di sicurezza e controllo delle frontiere e di contrasto all'immigrazione illegale».
Il riferimento è all'articolo 19 della Convenzione internazionale delle Nazioni unite sul diritto del mare (Unclos), che considera «non inoffensivo» il passaggio di navi dedite ad attività di imbarco o sbarco di persone in violazione delle leggi in materia di immigrazione. Di fatto, le due navi stavano effettuando operazioni di soccorso e, ai sensi della normativa interna e internazionale, quest’attività sarebbe per definizione “inoffensiva”. Evidentemente il ministro dell’Interno è di tutt’altra opinione. Può essere utile verificare se quella del ministro ha qualche fondamento.
Le convenzioni internazionali
Occorre partire dalle convenzioni internazionali che disciplinano l’obbligo di soccorso in mare. La citata convenzione Unclos stabilisce il dovere di «prestare assistenza a qualsiasi persona trovata in mare» e «procedere il più velocemente possibile al salvataggio» (articolo 98). A essa si aggiungono la Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (Solas) e la Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso marittimi (Sar). Secondo quest’ultima, sono istituite - d’intesa tra gli stati costieri - zone di ricerca e salvataggio, le zone Sar, sulle quali ciascuno stato esercita la competenza al soccorso di imbarcazioni in situazione di criticità (distress).
Il paese responsabile della zona Sar in cui è accaduto l’evento critico deve fornire al più presto un posto sicuro (place of safety, Pos), cioè un luogo ove, oltre alla cura dei bisogni primari, sia garantito ai naufraghi l’esercizio dei diritti fondamentali, tra cui quello di asilo (vedi anche le linee guida dell’Organizzazione marittima internazionale, agenzia delle Nazioni Unite). È lì che le operazioni di soccorso possono dirsi concluse.
Presunzione di colpevolezza
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La direttiva di Piantedosi si fonda sul presupposto che certi interventi da parte di imbarcazioni private non siano mere operazioni di salvataggio, ma possano costituire favoreggiamento di immigrazione irregolare, cioè un preventivato e intenzionale trasporto di migranti per favorirne l’ingresso illegale sul territorio nazionale.
Tale “presunzione di colpevolezza” sarebbe rafforzata in presenza di due condizioni: le navi non comunicano immediatamente le operazioni di soccorso al centro di coordinamento competente e allo stato di bandiera della nave soccorritrice o effettuano tali operazioni senza rispettare le indicazioni del centro di coordinamento.
Queste condizioni legittimano l’esercizio del potere di limitare o vietare il transito e la sosta nel mare territoriale di cui il ministro dell’Interno dispone - ai sensi decreto Sicurezza bis, come modificato nel 2020 - di concerto con i ministri delle Infrastrutture e della Difesa.
La “presunzione di colpevolezza”, fondata sulle condizioni indicate, solleva molti dubbi. Quanto alla violazione dell’obbligo di informare l’autorità competente, la convenzione Solas dispone che essa è dovuta solo «se possibile», e non tassativamente, come invece afferma la norma nazionale. E la convenzione internazionale è di rango superiore rispetto a quest’ultima (articoli 10 e 117 della Costituzione).
Quanto alla mancata osservanza delle indicazioni impartite dall’autorità competente, essa sarebbe giustificata, ad esempio, se l’autorità ordinasse al comandante di riportare i naufraghi in Libia, ove essi rischiano di subire torture o trattamenti inumani o degradanti, come attestato da rapporti dell’Onu; o se l’ordine fosse quello di astenersi dalle operazioni di salvataggio, ma il comandante vi procedesse comunque, dopo aver accertato in concreto che non intervengono soccorsi diversi.
In altre parole, il Viminale dovrebbe tenere presente che omettere di informare il centro di coordinamento sull’inizio dell’operazione di soccorso di una imbarcazione in condizione di distress o non attenersi alle sue indicazioni non possono trasformare automaticamente il soccorso stesso in un’ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione. E non è tutto.
Gli errori giuridici di Piantedosi
Per motivare la propria direttiva, Piantedosi ha detto di voler «riaffermare un principio: la responsabilità degli stati di bandiera di una nave» che – a detta del ministro - sarebbe stato riconosciuto nel «famoso caso Hirsi». Il richiamo a questo caso lascia perplessi. È vero che nella sentenza Hirsi (febbraio 2012) la Corte europea dei diritti umani aveva rilevato la responsabilità dello stato di bandiera, l’Italia. Ma ciò in quanto, nel maggio 2009, il governo italiano si era reso autore di un respingimento illegittimo di un considerevole numero di profughi, in violazione del principio di non refolulement (Convenzione di Ginevra), dando l’ordine di trasportarli in Libia, ove la loro incolumità era messa a rischio, anziché in un porto sicuro.
Dunque, la Corte non ha affermato il principio per cui lo stato di bandiera della nave di soccorso è responsabile di fornire accoglienza e altro, come sembra affermare Piantedosi. Né la Corte avrebbe potuto farlo, ai sensi delle citate convenzioni internazionali, che ripartiscono le competenze tra gli stati: quello di bandiera deve esigere che il comandante di una nave «presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita quanto più velocemente possibile» (convenzione Unclos), mentre per il resto interviene lo stato nella cui zona Sar è avvenuto l’evento critico.
I poteri del ministro delle Infrastrutture
Si è molto discusso della delega ai porti. In un articolo precedente si è spiegato che il passaggio della stessa al ministro del Mare non avrebbe precluso al ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, di concorrere a esercitare, con il ministro dell’Interno e quello della Difesa, il citato potere di chiudere le acque territoriali.
Ma c’è anche un altro profilo rilevante, che pare sfuggire a molti. Il titolare del dicastero delle Infrastrutture, a norma dell’articolo 83 del codice della Navigazione, dispone di un potere autonomo – distinto da quello attribuito al ministro dell’Interno dal decreto Sicurezza bis - di «limitare o vietare il transito e la sosta di navi mercantili nel mare territoriale, per motivi di ordine pubblico (…)». È più chiaro ora perché Salvini, non potendo ottenere il Viminale, ci teneva tanto al dicastero di cui ora è a capo?
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