- Lollobrigida, Urso, Ciriani, Mantovano, ecco perché la presidente alla fine ha dovuto arruola la sua «guardia». L’unica novità apprezzabile è una donna a Palazzo Chigi. Anche se la prima premier italiana si farà chiamare al maschile come tutti i suoi predecessori (maschi).
- Non era pronta. E gli alleati ci hanno scommesso. Si capisce perché ha arruolato i suoi più stretti: sa che l’affidabilità è moneta fuori corso nella sua alleanza.
- Al Quirinale i dicasteri sono stati attribuiti con i loro nomi tradizionali, per ufficializzare la neolingua nazionalista bisognerà aspettare i decreti.
Una delle novità dell’ultima ora, nella lista dei ministri, è la nomina ai rapporti con il parlamento del fedelissimo Luca Ciriani. Per quel posto il totoministri ha dato fino all’ultimo il «moderato» ed ex dc Maurizio Lupi, uno con un curriculum politico radicalmente diverso da quello dell’ex missino friulano. È vero che Lupi è il leader di una piccola forza politica miracolata dall’uninominale e neanche arrivata all’uno per cento; ed è vero che non era mai stato “chiamato” da Giorgia Meloni, quindi ufficialmente la sua non è stata un’esclusione. È vero anche che Fratelli d’Italia ha affidato a Lupi la delicata operazione di costruire un gruppo parlamentare, il quarto della maggioranza, capace di accogliere gli eventuali transfughi di Forza Italia, quindi serve alla guida di quel contenitore. Ma la cosa più interessante è che anche in quella casella delicata la premier ha voluto uno dei suoi. Perché qualcosa non ha funzionato.
La guardia «del» presidente
È successo anche in altri casi. Per esempio è curiosa la scelta dell’uomo più vicino a Meloni, Francesco Lollobrigida, pronipote di Gina e cognato di Giorgia, al ministero dell’Agricoltura benché rinominato della Sovranità alimentare (ma al Quirinale i dicasteri sono stati attribuiti con i loro nomi tradizionali, per ufficializzare la neolingua nazionalista bisognerà aspettare i decreti). Nel suo curriculum non c’è la battaglia del grano ma una laurea in legge e una rocciosa esperienza da responsabile dell’organizzazione, dal Msi a Fdi. Il fatto è che nelle incertezze degli ultimi giorni prima delle consultazioni, quando tutto rischiava di saltare in aria, Meloni ha rinunciato alle ambizioni di egregie cose e ripiegato ad arruolare il corpo scelto dei suoi fedelissimi. La guardia «del» presidente (abbiamo appreso che la prima presidente del consiglio si farà chiamare al maschile come tutti i suoi predecessori maschi). Si capisce la ragione: la premier sa che l’affidabilità è moneta fuori corso nella sua alleanza. Per questa stessa ragione ha voluto il tradizionalista cattolico Alfredo Mantovano come sottosegretario alla presidenza del consiglio. Affidabili contro inaffidabili. E inaffidabili sono, evidentemente, i suoi alleati. Non era in programma: dal giorno della vittoria elettorale i suoi fedelissimi continuavano a ripetersi l’un l’altro che non sarebbero entrati al governo.
Siparietti eloquenti
Questo sabato mattina, al Quirinale, il giuramento ha messo in mostra alle telecamere la miscela fra alta fedeltà e scarsa competenza della nuova compagine di governo. Frutto dei molti no ricevuti, a loro volta frutto della scarsa credibilità che ha portato anche i pochi prestigiosi tecnici di area a non rischiare la reputazione in un’avventura incerta. Quelli che hanno detto sì – sei – non sono prime scelte.
Il colpo d’occhio era inclemente. E non per le titubanze da ballo dei debuttanti: la presidente del consiglio che sbaglia uscita e cerca di andar via nella direzione sbagliata è un classico, come il ministro (maschio) che sbaglia scarpe, un altro (Salvini) che prova a leggere la formula del giuramento senza occhiali poi si rassegna a inforcarli. In un’occasione del genere la quota di emozione è umanissima e comprensibile, i siparietti sono gustosi e per lo più innocui. Meno innocente è quello che è frutto di una scelta consapevole: l’età media alta, le pochissime donne, 5 su 25.
Il resto è un pasticciaccio di conflitti di interessi (Crosetto, Santanché e Urso), deleghe confuse (Salvini insiste per togliere la giurisdizione dei porti al ministro del Mare Nello Musumeci), compensazioni ideologiche (il dicastero inventato per il presidente della Sicilia riequilibra quello dell’autonomia regionale affidato al leghista Roberto Calderoli), ripieghi (per il Mef alla fine non si è trovato di meglio dell’ex ministro Giorgetti, nomina che irrita Salvini), scambi di ruoli (la gaffe dello scambio di ministeri fra Paolo Zangrillo e Gilberto Pichetto Fratin, corretta poi dal Quirinale, ha dimostrato che i due si sentono interscambiabili), ripescaggi indietristi (il ministero della natalità affidato a Eugenia Roccella sarà un’arma di distrazione di massa) e affetti familiari.
Alla fine l’unica novità apprezzabile di questo governo l’hanno imposta gli italiani e le italiane votando un partito che candidava una donna a palazzo Chigi. Ma questa donna, che pure ha fatto una campagna elettorale giurando di essere «pronta», ha già dimostrato che pronta non era. Infatti spiegano i bene informati che il 20 luglio è stata presa alla sprovvista dalla caduta di Draghi, scelta che gli alleati Lega e Fi hanno fatto esattamente per fermare la sua irresistibile ascesa, perdendo. È nato così il governo Meloni, sono arrivati così i suoi ministri, che questa domenica pomeriggio si riuniranno per il primo consiglio.
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