Non è impossibile che Matteo Salvini, tra una felpa e l’altra, abbia immaginato di vestire anche i panni più attempati e assai più castigati che furono di Mario Scelba. Entrambi furono ministri di polizia. Entrambi furono contestati, soprattutto da sinistra e dalle piazze. Entrambi indossarono la divisa dell’uomo forte, o almeno dell’uomo di polso. Entrambi violarono molti canoni della correttezza politica del loro tempo.

Qui però finiscono le affinità. E comincia una lunga serie di differenze. Quella delle loro epoche, così diverse. Quella delle loro militanze, non così affini. Quella dei loro caratteri, letteralmente agli antipodi. Infatti uno dei due era discreto, silenzioso, quasi reticente, perfino timido, incline a defilarsi. L’altro, al contrario, era ed è loquace, chiacchierone, facondo in un modo volutamente eccessivo. Uno un po’ monotono, l’altro fin troppo variegato. Uno sempre in mezzo alle righe, quasi nascosto tra di loro, l’altro drammaticamente sopra, fino a farsi riconoscere da lontano. 

Di passaggio

Se esiste un passaggio che conduce da una repubblica all’altra, si può dire che Scelba fu l’alba della Prima e Salvini fu il tramonto della Seconda. Il primo si mosse all’ombra di De Gasperi, figlio anche lui di quel lontano 18 aprile 1948, quando i democristiani conquistarono la guida del paese. Il secondo ha cercato riparo prima all’ombra di Bossi, poi di Berlusconi, poi ancora di Meloni. Senza mai riuscire però a diventare il sole di sé stesso.

A entrambi si addiceva, e si addice, la polemica politica e la sfida agli intellettuali. Scelba li radunò sotto l’etichetta, non proprio amichevole, di “culturame”. Definizione sprezzante che non gli valse nessun consenso e nessun vantaggio. Salvini è andato ben oltre, dedicando a pensatori, artisti, cantanti un vituperio che è direttamente proporzionale alle critiche che questi a loro volta gli hanno rivolto. Con la differenza che il primo affrontò l’argomento una volta sola e probabilmente un po’ se ne pentì. Il secondo invece lo ha sviscerato in un’infinità di occasioni con una sorta di crescente compiacimento anche per le repliche piccate che ne ha poi avuto in cambio.

Così come si potrebbe ricordare che entrambi si sono mossi con qualche impaccio, chiamiamolo così, sulla scena internazionale. Uomini di provincia, tutti e due. Uno figlio della provincia siciliana, quasi indipendentista, di quel lontano dopoguerra. L’altro figlio della provincia padana all’indomani dell’affermazione leghista. Ma quel tanto di poca accortezza diplomatica ebbe effetti assai diversi. Leggeri in un caso, assai più pesanti nell’altro.

Così, quando Scelba si trovò a incontrare il presidente francese dell’epoca, questi gli diede la mano presentandosi con il suo nome, «Piacere, Pierre Mendès France». E lui gliela strinse fraintendendo e presentandosi a sua volta come «Mario Scelba, Italia». Mentre Salvini ha trovato il modo di farsi riconoscere perfino in un lontano paesino polacco dove un sindaco del luogo pensò bene di rinfacciargli una maglietta che aveva indossato qualche tempo prima e che inneggiava a Putin, allora fresco invasore della terra ucraina. Due scivoloni non paragonabili, tuttavia. Uno figlio di una provinciale ingenuità e l’altro di un mastodontico e imperdonabile errore geopolitico.

Statisti e non

Il fatto è che Scelba fu a suo modo un uomo di stato, che si adoperò in anni non facili per fronteggiare insurrezioni comuniste (con qualche durezza di troppo, forse, a volte) e rigurgiti neofascisti. Definizione, quella di “statista”, che neppure una generosità fin troppo indulgente consentirebbe di adoperare nel caso di quel suo lontano successore alla scrivania del Viminale. Il quale infatti è stato a suo tempo “comunista padano” e ha poi allegramente civettato con gli ambienti dell’estrema destra romana. Due latitudini agli antipodi, se così si può dire.

Altri tempi, si dirà. E infatti il primo s’è dovuto dare da fare in mezzo a turbolenze drammatiche riuscendo a puntellare con qualche fatica le fondamenta dell’ordine pubblico. Mentre il secondo ha potuto dedicarsi a frequentazioni fin troppo avventurose solo perché nel frattempo i nostri antenati avevano messo ragionevolmente al sicuro le basi della nostra pur tribolata democrazia. Così, all’uno si dovrebbe riconoscere un merito e all’altro magari rimproverare una disinvoltura.

Eppure non deve essere stato solo il tempo a fare la differenza. Semmai la compagnia, la formazione, il carattere. Già, perché da una parte le cronache hanno lungamente raccontato un eccesso di discrezione, quasi una deliberata opacità politica, o almeno una certa attitudine a non mettersi troppo in mostra. Dall’altra parte invece continua a imperversare un diluvio di foto, messaggi, confidenze, esternazioni di tutti i tipi e per tutti i gusti (a patto che si tratti di gusti forti). Uno a disagio quella volta che venne paparazzato a via Veneto, forse in una compagnia non proprio canonica. E l’altro a sua volta compiaciuto non appena ha potuto brandire un mojito, baciare un prosciutto, esibire il crocifisso.

Tra politica e immagine

Eccessi di disinvoltura che vanno molte oltre i consigli degli spin doctor, che allora non c’erano e oggi imperversano. Ma appunto è sempre la politica, e non l’immagine, che fa la differenza. Anche nelle sue mutevoli combinazioni. E infatti Salvini ha governato con Conte, poi con Draghi, ora con Meloni, traversando le frontiere tra le più diverse formule politiche con l’abilità di un trapezista.

Scelba invece è rimasto ancorato al centrismo e ha fatto fatica, molta fatica, a pensare che ci si potesse spingere fino a comprendervi i socialisti di Nenni. E se è rimasto leale al suo partito, quando il suo partito guardava dalla parte opposta, dev’essere stato solo perché sentiva quel vincolo come un dovere morale e non avrebbe mai attraversato confini politici che a quel tempo erano sigillati con un reticolo di filo spinato che anche lui aveva provveduto a stendere.

Figlio del primo dopoguerra, e della durezza di quell’epoca lontana, Scelba è sopravvissuto alla fine del suo governo e della sua formula politica attraversando gli anni successivi quasi in punta di piedi, consapevole che la sua stagione di gloria era inesorabilmente tramontata. Mentre Salvini è ancora sulla scena, ancora al governo, ancora a capo del suo partito.

E da quella tribuna si gioca le sue carte – quelle che gli sono rimaste in mano –  non senza una certa spavalderia. Forse lungo questo percorso un po’ accidentato avrà pensato di somigliare allo Scelba dei giorni migliori. Mentre si ignora cosa lo stesso Scelba avrebbe potuto pensare di quel suo lontano successore. Se mai gli fosse capitato di incontrarlo.

  

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