In due interventi in aula, la premier è stata protagonista di pesanti gaffe che l’hanno portato al gran giurì alla Camera. I collaboratori più stretti consigliano male e non trovano i possibili errori nei documenti
Prima il fax sul Mes sventolato per attaccare Giuseppe Conte e la presunta approvazione con «il favore delle tenebre». Poi l’assist sull’introduzione del tetto alle assunzioni in sanità, datato 2009 in pieno governo Berlusconi, durante il recente “premier time” alla Camera.
Nelle ultime settimane Giorgia Meloni non ha un buon feeling con le aule parlamentari: gli errori iniziano a diventare pesanti e danno fiato agli attacchi delle opposizioni, anche perché sono stati equamente distribuiti tra Pd e Movimento 5 stelle.
E tirano in ballo l’efficienza dello staff, quella filiera di fedelissimi, dal potente sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, alla super consigliera Patrizia Scurti, segretaria sulla carta e factotum nella realtà. Una catena di amici di vecchia data e parenti che include la portavoce di sempre, Giovanna Ianniello, e suo cognato Paolo Quadrozzi (a palazzo Chigi nelle vesti di collaboratore del sottosegretario Alfredo Mantovano). Sono loro a dover sminare il terreno.
Dal Mes alla sanità
Qualcosa si è inceppato nella macchina di palazzo Chigi. Gli ultimi errori non possono essere causa di un destino beffardo. I consiglieri più ascoltati sono in affanno, mostrano dei deficit, se non di preparazione quantomeno di lucidità. Il fulcro dell’apparato strategico è Fazzolari, non a caso definito «il più intelligente di tutti» dai vertici di Fratelli d’Italia.
Il primo svarione, piuttosto clamoroso, è stato quella copia del fax agitato alla Camera con l’accusa rivolta a Conte di aver approvato il trattato dopo la caduta del suo governo. Un affondo che, per qualche ora, ha rimesso insieme l’attuale leader del Movimento 5 stelle con l’ex ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che ha portato le prove della bugia di Meloni. «Vorrei esprimere solidarietà a Meloni, il suo staff avrebbe dovuto proteggerla, il foglio che ha esibito la premier smentisce quello che stava dicendo in Aula», ha ironizzato poi Di Maio. Individuando, però, il problema principale: la svista dei consiglieri.
L’idea propagandistica aveva l’impronta di Fazzolari, l’errore della data – dando per assodata la buonafede – coinvolge ogni stretto collaboratore, dagli uffici legislativi a quelli della comunicazione: una semplice verifica avrebbe risparmiato la convocazione di un gran giurì alla Camera, voluto da Conte per difendere la propria onorabilità. Al di là del verdetto, resta la data sbagliata di Meloni.
Mercoledì scorso alla Camera, l’inner circle della premier ha fatto anche peggio: sul tetto per le assunzioni in sanità «ci troviamo a fare i conti con una situazione che si è stratificata negli ultimi 14 anni», ha detto in risposta all’interrogazione di Elly Schlein. Roba da far sobbalzare dalla sedia: la leader di FdI ha citato, in maniera negativa, una misura introdotta da un governo in cui era ministra.
Il più comodo degli assist alla segretaria del Pd, che ha gentilmente raccolto per affondare il colpo e andare a segno. Le responsabilità, come il “finto fax” sul Mes, ricadono sullo staff che non ha vagliato gli elementi, benché la premier avrebbe potuto essere più attenta in fase di intervento. E ricordare che nel 2009 non era all’opposizione.
Dettagli sfuggiti
Di sicuro la lunga macchina di controlli è andata in panne. L’interrogazione di Schlein riguardava la sanità e quindi – per prassi – ha sollecitato gli uffici del ministero competente per materia, in questo caso la Salute di Orazio Schillaci.
I tecnici, però, hanno badato solo ai riferimenti normativi da inserire nel documento. La bozza è stata quindi inviata a palazzo Chigi. E qui c’è stato il vero inghippo: per prassi gli uffici legislativi della presidenza del Consiglio valutano la bontà della documentazione, approvandola. La valutazione politica e comunicativa spettava ai consiglieri più vicini, la filiera Quadrozzi-Ianniello-Scurti, che generalmente scansionano ai raggi X ogni dossier. Solo che il dettaglio è sfuggito, nemmeno la stessa premier si è resa davvero conto di quello che diceva.
Nel caso specifico, risulta a Domani, Fazzolari non ha avuto un ruolo in questa commedia: da sottosegretario non si occupa di interrogazioni parlamentari. Ma, fanno notare fonti di FdI, resta una sorta di responsabilità oggettiva: è il grande teorico della strategia dello scaricabarile, dare sempre la colpa agli altri, a quelli che c’erano prima.
Finora ha funzionato. Almeno fino a quando non è stata tirata troppo la corda. E in mezzo a tutti gli errori dei fedelissimi, chi rischia di pagare il conto è paradossalmente il consigliere economico – ufficialmente per politiche di bilancio – Renato Loiero, che negli infortuni comunicativi e legislativi non ha precise responsabilità.
Secondo le indiscrezioni, non ha convinto Meloni che starebbe valutando due opzioni: la sostituzione tout court o l’affiancamento di un altro esperto, che sarebbe una sorta di commissariamento. Solo che non è facile individuare profili adatti al compito. Il problema dello staff, insomma, inizia a sentirsi.
Anche perché, nella giornata di mercoledì alla Camera, c’è stato un altro svarione dettato dalla foga propagandistica: sulle privatizzazioni Meloni ha accusato il centrosinistra, con parole pesantissime, di aver agito come con gli oligarchi russi dopo il crollo dell’Unione sovietica. Insomma, il ritorno dell’accusa di «amichettismo», cioè di fare favori agli amici.
Un’affermazione spericolata, da cui dovrebbe mettersi in guardia. In un’intervista a La Stampa, il leader di Italia viva, Matteo Renzi, ha ricordato che la convenzione con i Benetton per Autostrade fu chiusa dal «Berlusconi quater, di cui Meloni era ministra». Un riferimento al cosiddetto emendamento salva Benetton, che dava maggiori garanzie agli imprenditori sulla concessione, votato dalla maggioranza di allora. Meloni compresa.
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