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Lontano dai riflettori, l’economista renziano Luigi Marattin riflette su quello che lui definisce «il fallimento del Pd». Ma evidentemente parla anche e soprattutto del fallimento di Italia viva, che nasce per attirare i “riformisti” o i “moderati” ma ha ormai un grande avvenire dietro le spalle.
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A Marattin risponde Claudia Mancina, colonna dell’associazione Libertàeguale: «Noi non abbiamo intenzione di fondare un partito, per il momento; siamo un luogo di riflessione e il confronto della diaspora dei riformisti».
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Ma nei dem il «partito di Draghi» è nel pieno tormento contro la linea Letta-Zingaretti.
«È venuto il tempo di dirci a che punto è il sogno che avevamo, quello sul fronte riformista, nato con la chimera del Pd. Che diceva: uniamo tutti i riformismi di questo paese, quelli di carattere socialista e quelli liberaldemocratici. Come succede nel Labour, nei democratici americani, nella Spd. È arrivato il momento di dire che questa cosa in Italia è impossibile, non ce l’abbiamo nel Dna. È ora di prendere atto che Giuseppe Provenzano e Irene Tinagli nello stesso partito non ci possono stare. Meglio che sia chiaro se il Pd è la sezione italiana di Corbyn e Ocasio-Cortez. Serve una costituente del riformismo liberaldemocratico». Lontano dai riflettori – ma comunque in diretta radiofonica su Radio Radicale – l’economista renziano Luigi Marattin riflette su quello che lui definisce «il fallimento del Pd».
Ma evidentemente parla anche e soprattutto del fallimento di Italia viva, che nasce per attirare i “riformisti” o i “moderati” ma ha ormai un grande avvenire dietro le spalle, e i gruppi parlamentari aspettano il segnale del “si salvi chi può”. La proposta di una nuova «costituente» arriva nel weekend a Orvieto, all’assemblea di Libertàeguale, appuntamento annuale dei “liberalsocialisti”, come si definisce uno dei suoi animatori, l’economista Enrico Morando, già migliorista nel Pci e nel 2007 vero ideologo del Veltroni-pensiero. Morando auspica «l’unità dei riformisti più coerenti», ma non prevede nuove scissioni dal Pd.
Dunque a Marattin risponde Claudia Mancina, altra colonna dell’associazione: «Noi non abbiamo intenzione di fondare un partito, per il momento; siamo un luogo di riflessione e il confronto della diaspora dei riformisti. Invece di pensare un nuovo partito potremmo proporre al Pd di candidare Draghi alle prossime elezioni». Variazioni di ricerca culturale e politica, almeno quelle di Mancina e Morando. Se non persino provocazioni, come l’idea di candidare a leader del centrosinistra il premier di una maggioranza che comprende la Lega.
Come nell’era precedente c’era chi vagheggiava il partito di Giuseppe Conte, oggi c’è chi vagheggia il partito di Draghi. Dipenderà anche dalla legge elettorale, ovvero il dossier che si aprirà dopo le elezioni al Colle. Nel Pd c’è chi ripropone il proporzionale, che piace anche a una parte della destra, chi invece insiste sul maggioritario. Come il deputato e costituzionalista Stefano Ceccanti: «Chi pensa di spaccare la maggioranza con una legge proporzionale senza coalizioni pre-elettorali produce un’eterogenesi dei fini: blocca tutto dall’inizio e blinda lo status quo».
Gli “incidenti” di Bologna
Eppure qualche ideuzza nuova sta circolando nell’area “riformista” dem in grande tormento. Ieri pomeriggio alla direzione del Pd, lontano da orecchi indiscreti – era a porte chiuse e senza streaming, solo la relazione del segretario Letta è stata trasmessa in chiaro – il portavoce di Base riformista Alessandro Alfieri ha dato del «bulletto» a Matteo Lepore, candidato sindaco a Bologna, accusato di aver fatto fuori la minoranza dalle liste del partito.
Gli ha risposto Gianni Cuperlo: «Vorrei dire ad Alessandro in amicizia e affetto che non sono addentro alle vicende bolognesi ma l’appello a una unità del partito nella costruzione delle liste io lo condivido. Ecco, mi sarebbe piaciuto sentire lo stesso appello da questa tribuna alle quattro e mezza di mattina in quella riunione spiacevole e sgrammaticata della direzione del Pd che licenziò le liste per le politiche del 4 marzo del 2018».
Il riferimento è alla notte fra il 26 e il 27 gennaio in cui Matteo Renzi sbianchettò molti esponenti delle minoranze dagli elenchi dei candidati; non Cuperlo, che però per protesta rinunciò a correre.
Il barometro dei rapporti fra il segretario Pd e la corrente del ministro Lorenzo Guerini e dell’ex ministro Luca Lotti non è mai stato così sottozero. Non è piaciuta la conclusione della festa dell’Unità a Bologna, la sequenza delle serate con Giuseppe Conte e Nicola Zingaretti prima del comizio finale del leader. Anche perché in questi giorni Zingaretti si è levato qualche sasso dalla scarpa in direzione proprio di Base riformista, la corrente da cui ritiene di essere stato più logorato. Al discorso di Letta, peraltro, non erano presenti né Lotti né Guerini. Il primo perché «autosospeso» dal partito causa coinvolgimento nello scandalo del Csm; il secondo «per impegni familiari comunicati anticipatamente al segretario», fa sapere. Ma l’effetto-assenza resta.
Nelle città i sondaggi sono abbastanza concordi nell’indicare buone possibilità per i candidati «aperti» a sinistra e ai Cinque stelle (Gualtieri a Roma, Lepore a Bologna, Manfredi a Napoli) ma non per l’unico candidato di Br, Stefano Lorusso, antigrillino della prima ora. C’è malumore in questo lato del Pd.
Tanto che c’è chi, archiviate le comunali, pensa che per fare il pieno dei voti in un futuro congresso non basterà il presidente emiliano Stefano Bonaccini, ma servirà un solidissimo posizionamento politico, antitetico alla linea Letta-Zingaretti. Quello di Guerini, il ministro voluto dal Colle, ex renziano doc e vero capo del «partito di Draghi» nel Pd, oltreché della corrente «riformista».
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