Il Doge vorrebbe restare ma il pdl per il terzo mandato non ha il sostegno degli alleati, così riflette sulle europee. Meloni ha pronti due nomi: De Carlo e Donazzan. La Lega non intende lasciare il passo e ragiona su Mario Conte
Nel risiko delle elezioni regionali, il Veneto sta diventando terra di conquista. Mentre Matteo Salvini e Giorgia Meloni battagliano per la Sardegna, è già partita contesa interna per la regione traino del nord-est, governata ininterrottamente per 14 anni da Luca Zaia. Il tempo del Doge – capace di toccare il 44 per cento solo con la sua lista civica, arrivando ad un plebiscitario 73 per cento con la coalizione – infatti, potrebbe essere arrivato al tramonto.
Il condizionale è d’obbligo. Ogni riflessione sul Veneto dipende da una variabile che passa dall’odiata Roma, nemica giurata dai nostalgici del Leone di San Marco: il sì della maggioranza al progetto di legge per portare da due a tre il numero dei mandati continuativi per i presidenti della Regione. Il pdl è stato depositato alla Camera dal segretario della Liga veneta, Alberto Stefani, ma non è stato concordato con la coalizione e il suo via libera dipenderà dagli altri incastri alle regionali.
Eppure, se si dovesse calcolarne il successo, «la percentuale di successo è piuttosto bassa», dice un influente esponente di Fratelli d’Italia. Del resto, il primo a esprimere apertamente perplessità è stato il vicepremier azzurro Antonio Tajani: «Non sono granché favorevole al terzo mandato. Non possiamo dare a chi ha già un grande potere, ancora più tempo per rimanere». Parole che sembrano ritagliate su Zaia, che di mandati ne ha già fatti tre e, se passasse la legge, potrebbe tentare addirittura il poker.
La Lega
Anche senza Zaia, «il Veneto andrà a un leghista», ha già messo le mani avanti il vicesegretario della Lega, Andrea Crippa. Veneto e Lombardia sono le due culle del leghismo e lo storico bacino elettorale del partito fondato da Umberto Bossi e cedere il passo anche se dopo 15 anni viene considerato impensabile da Matteo Salvini.
Eppure, tra il lombardo Salvini e il veneto Zaia c’è sempre stata una distanza incolmabile per modi, ambizioni e approccio politico. Populista il primo e lanciato in direzione del partito nazionale, con strizzate d’occhio all’ultra destra; amministratore tutto d’un pezzo il secondo, fedele alle radici autonomiste della Lega e laico negli approcci anche sui temi più spinosi per la Lega, come il fine vita. Se il leader nazionale è in crisi di consensi e sta lavorando per ritornare almeno a doppia cifra, quello veneto gode di un consenso che lo proietterebbe tra i mr. Preferenze delle prossime elezioni europee, se decidesse di candidarsi.
Chi lo conosce, però, definisce Zaia quantomai «confuso», la cui unica vera ambizione sarebbe di rimanere ancora a palazzo Balbi e che di europee non vorrebbe sentir parlare: «Non potrebbe mai fare l’eurodeputato semplice. Se accettasse la candidatura per spingere la Lega, dovrebbe avere una contropartita significativa». Che però la Lega non può promettergli, vista la sua posizione marginale del gruppo a cui aderisce nelle dinamiche Ue.
Che il vento stia cambiando anche per Zaia, però, lo dimostrano anche le perplessità interne. Nella Liga veneta non tutti sono favorevoli al terzo mandato e un nome alternativo ci sarebbe: Mario Conte, il sindaco di Treviso (la stessa provincia di Zaia, di Conegliano) e da molti considerato l’erede perfetto, anche se il Doge non ha mai voluto sentir parlare di successori, men che meno se conterranei.
Dentro il partito, infatti, sta serpeggiando una sensazione che viene definita di «dubbio sull’opportunità» del quarto mandato a Zaia. Nessuno si sogna ancora di dichiararlo in chiaro, però. Il muro si alza prima: la linea ufficiale è di considerare surreale il dibattito ora sul Veneto, dove si voterà nel settembre 2025 e forse anche più in là. Un segreto poco nascosto di Zaia, infatti, è che il suo sogno è quello di inaugurare le Olimpiadi invernali 2026 Milano-Cortina e starebbe cercando un metodo per far slittare di un paio di mesi il voto.
Intanto, però, due ragioni di calcolo interno stanno mettendo in agitazione la Lega in regione. La prima riguarda gli assessori leghisti della giunta, che secondo statuto non possono fare più di due mandati e si starebbero quindi guardando intorno anche verso altri partiti, come per esempio è il caso dell’assessore allo sviluppo economico Roberto Marcato, lusingato dall’offerta di candidatura europea avanzata da FI. La seconda è la vera incognita elettorale: Zaia ha vinto le scorse regionali facendo il pieno di 24 consiglieri con la sua lista personale, i quali oggi sono più che inquieti per loro futuro senza più il vessillo del presidente. L’interrogativo è dove andranno a disperdersi questi eletti e i rispettivi voti, considerando che alle scorse politiche la Lega si è piazzata al 14,5 per cento, dietro al Partito democratico con il 16 per cento.
Fratelli d’Italia
Anche questa è una delle motivazioni sul tavolo, che già gli alleati hanno sollevato in vista del 2025. Se FdI e Forza Italia non hanno mai messo in discussione la primazia del presidente Zaia, ora entrambi nutrono «legittime aspettative», dice una fonte veneta di Fratelli d’Italia. Del resto, i risultati alle politiche del 2022 hanno stupito la stessa Giorgia Meloni, che ha perso la scommessa con il ministro del Made in Italy Adolfo Urso (cresciuto in Sicilia ma di madre veneta, che in Veneto è uno dei registi di FdI) il quale le aveva predetto che FdI avrebbe doppiato la Lega e così è stato, con un 32 per cento a 14,5. Sul Veneto, inoltre, si stanno riverberando anche le ultime polemiche al coltello tra FdI e Lega in Trentino, dove la Lega ha spuntato la ricandidatura di Maurizio Fugatti ma di cui FdI non si dimenticherà velocemente e anzi, l’ha considerata l’ultima goccia.
Eppure, anche in FdI Veneto il clima non è rilassato e arrivano echi delle dinamiche nazionali. La divisione interna vede da una parte il senatore bellunese Luca De Carlo, vicinissimo al ministro Francesco Lollobrigida, che via stampa ha già fatto arrivare l’ipotesi della sua candidatura; dall’altra invece c’è il gruppo più legato ad Adolfo Urso, cui fa capo l’altro nome papabile: Elena Donazzan, fresca di vittoria all’ultima stagione congressuale di FdI e che a sua volta non fa mistero di sentirsi pronta al gran salto. I due hanno profili diversissimi: De Carlo è stato sindaco in un piccolo comune del bellunese ed è al secondo mandato in parlamento, Donazzan è una veterana della regione. Eletta per la prima volta nel 2000 come unica portabandiera di FdI, è a palazzo Balbi ininterrottamente da 24 anni e non ha mai fatto mistero delle sue radici nella destra-destra ed è diventata nota a livello nazionale nel 2021 per aver intonato Faccetta Nera ai microfoni della Zanzara. Anche il nome dello stesso Urso è stato fatto balenare, ma il suo inner circle ha fatto capire che il ministro preferisce Roma, mantenendo però in Veneto un ruolo di regia.
In questo assalto alla Liga veneta da parte di FdI, anche Forza Italia è decisa a giocare un ruolo. Flavio Tosi, l’ex sindaco leghista di Verona che si era candidato contro Zaia e arruolato da Silvio Berlusconi per risollevare gli azzurri, sta interpretando il suo ruolo di coordinatore regionale in modo molto aggressivo, con una campagna acquisti in casa leghista, da cui ha già portato l’ex senatore Giampaolo Vallardi e con offerte agli assessori uscenti Federico Caner, Gianpaolo Bottacin e Roberto Marcato. Anche a costo di far storcere il naso agli storici esponenti di FI in Veneto, che si sentono ancora eredi della Dc e non approdo per ex leghisti. Difficile che Tosi sia in campo come candidato presidente, tuttavia il suo dinamismo servirà a far pesare gli azzurri al momento delle decisioni. Solo su un punto tutti concordano: sarà l’esito delle europee a delineare i rapporti di forza in regione, dando peso specifico all’ambizione di FdI.
Il Pd
Chi punta ad approfittare di questo scenario così caotico è il Partito democratico, che alle scorse amministrative ha percepito che il vento forse sta iniziando a cambiare. I dem, infatti, hanno scalzato la Lega sia a Vicenza che a Verona e guidano Padova e Rovigo. I centri urbani somigliano poco al Veneto più profondo ancora intriso di leghismo e la regione è storicamente orientata a destra, ma è un punto di partenza.
Intanto la linea del Pd è quella del no alla proposta di legge sul terzo mandato e nel mentre si lavora: «E’ iniziata l’opera di ricostruzione, per rafforzare il nostro profilo sull’onda del successo nelle città. Il Pd c’è è può competere, aggregando anche le forze civiche», dice il senatore e segretario regionale Andrea Martella. Con una destra unita rischia ancora di non esserci partita, ma le divisioni interne potrebbero fare la fortuna di una proposta alternativa, proprio come è successo alle comunali di Verona con la vittoria di Damiano Tommasi.
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