Già ora è difficile distinguere i buoni dai cattivi, e quest’ultimo lato della lavagna – come nelle classi più indisciplinate di un tempo – continua ad arricchirsi di nominativi e funzioni che hanno giocato (magari fino a tre giorni fa) la partita per una squadra diversa che li ha assoldati per mille e trecento euro al mese. La più profonda tristezza si mescola alla rabbia di non poter far nulla. Lo stato è moribondo
In una Italia divorata visceralmente dalle termiti del malaffare, il colpevole – inutile girarci attorno – è lo stato. Doloroso dirlo, ancor più straziante il doverlo ammettere.
L’intreccio di dossier e scandali, che fa invidia alle più abili confezionatrici di cestini di vimini, è l’incontrovertibile dimostrazione che i più delicati sistemi informatici del paese sono ormai fuori controllo e che non si ha la più pallida idea di come rimediare ad una verticale perdita di credibilità che le Istituzioni non possono più fingere di non vedere.
È venuto il momento di riconoscere che “qualcosa” non va, che si è sbagliato nel progettare, nel gestire, nel controllare, nell’adottarne i relativi provvedimenti e adesso il vaso non solo è colmo ma è tracimato sul tappeto più bello. È il tappeto sotto al quale – con colpevole nonchalance – è stata nascosta prima la polvere e poi la ghiaia.
Dov’è la sicurezza
La gravità della situazione è inaudita perché le blindature degli archivi elettronici più delicati sono state dissaldate, sfruttando la fragilità delle soluzioni tecnologiche in esercizio e soprattutto avvalendosi della cooperazione proattiva di soggetti regolarmente autorizzati che “per quattro spicci” si sono abituati a “lavorare conto terzi”.
Venuta meno l’impermeabilità dell’architettura informativa della nazione è legittimo ipotizzare il peggio. Se qualcuno entra ed esce dai database di maggiore criticità come se fosse cosa sua (o Cosa nostra), possiamo serenamente confessare che tutta la sicurezza “raccontata” non corrisponde a quella in funzione.
Ma le allegre e festose scorribande con tanto di isterici urletti «così freghiamo tutta Italia», siamo proprio certi che si siano limitate a saccheggi più o meno redditizi? Chi può dire (e con quale attendibilità residua) che non c’è stata solo una “semplice copia” illecita di contenuti che dovevano restare segreti?
Il quisque de populo può stare tranquillo che in qualche archivio o schedario le sue informazioni non siano state oggetto di manipolazioni o inserimenti fraudolenti che possano recargli pregiudizio?
Un macigno di informazioni
Non so chi possa rispondere a un simile quesito e chi lo possa fare con la dovuta trasparenza e precisione. Gli ingranaggi della “macchina” che doveva tutelare la riservatezza dei dati è ormai chiaro che si sono inceppati o sono finiti fuori uso. Ma i meccanismi a protezione dell’integrità delle informazioni, ossia quelli a garanzia della loro originalità e veridicità hanno fatto il loro dovere?
Si verrà a raccontare che ci sono rigorose procedure di autorizzazione, specifici privilegi di accesso, “log” che registrano ogni minuscolo evento abbia luogo sui sistemi ICT. E allora si dovrà spiegare perché sono penetrati intrusi privi di qualsivoglia abilitazione e nessuno si è accorto di nulla se non con ritardi clamorosi che hanno permesso a certa gente di arricchirsi a piene mani.
Lo si dovrà rendere commestibile anche per chi non digerisce le tecnologie, meritevole di esser edotto su quel che incredibilmente si è verificato.
Ottocentomila schede SDI, ovvero il profilo di precedenti e dettagli di altrettante persone all’interno del Sistema Informativo Interforze in uso ai Corpi di Polizia, non si limitano a ingombrare i 15 terabyte di dati sui relativi supporti di memorizzazione, ma sono un macigno di informazioni che nemmeno la versione virtuale di Obelix saprebbe caricarsi sulla schiena.
Il putridume della vicenda tratteggia una mappa che si allarga di ora in ora, non determinando un contagio ma palesando una contaminazione radicata fin nelle più piccole cartilagini dell’ossatura delle istituzioni.
Già ora è difficile distinguere i buoni dai cattivi, e quest’ultimo lato della lavagna – come nelle classi più indisciplinate di un tempo – continua ad arricchirsi di nominativi e funzioni che hanno giocato (magari fino a tre giorni fa) la partita per una squadra diversa che li ha assoldati per mille e trecento euro al mese.
La più profonda tristezza si mescola alla rabbia di non poter far nulla. Lo stato è moribondo. Come nei film, qualcuno si lascia scappare «lo stiamo perdendo».
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