- Daniele Vicari è regista di «Diaz. Don’t clean up this blood». Il 21 luglio a Piazza San Cosimato verrà riproposto il film, Diaz. La serata è ideata da Piccolo America e Confronti in collaborazione con Amnesty, Antigone, e con questo giornale, Domani.
- A venti anni dai fatti di Genova e a dieci anni dalla realizzazione del film, Vicari racconta tutte le difficoltà di trasformare la storia in fiction: la indisponibilità dell’Italia a ospitare le riprese, il sequestro dei mezzi di scena.
- E poi le polemiche, che durano tuttora. Ma il cinema è servito a «mostrare a tutti il nocciolo della questione».
Il 21 luglio a Roma, in piazza San Cosimato, verrà riproposto il mio film, Diaz. La serata è ideata da Piccolo America e Confronti in collaborazione con Amnesty, Antigone, e con questo giornale, Domani. Saremo presenti in forze per incontrare di nuovo il pubblico a 9 anni dall’uscita del film, nel 2012, e a dieci dalla sua realizzazione. E di questo ringrazio i “ragazzi del cinema America” esprimendo loro piena solidarietà per essere ancora una volta sotto attacco da parte di pericolosi incoscienti.
Dopo la messa in onda di Diaz su La7, qualche giorno fa, è ripreso il “dibattito” sul film ed ecco, di nuovo, le diverse posizioni scontrarsi. Per fortuna in questi nove anni ha fatto il giro del mondo, distribuito dalla Universal, andando oltre le polemiche, i tentativi di ostracismo e le incomprensioni. D’altro canto è nato così, come un film “deterritorializzato”, visto che abbiamo dovuto girarlo in Romania per la totale indisponibilità dell’Italia a ospitarlo e a finanziarlo. I pochi giorni di riprese che abbiamo fatto a Genova sono stati un incubo, tra sequestri dei mezzi di scena da parte della questura, fermi delle figurazioni perché vestite da poliziotti, stop delle riprese da parte della municipale nonostante il regolare e munifico pagamento delle tasse connesse. Ma tutto questo è acqua passata, per fortuna i film sono fatti così, se ne fregano di tutto e di tutti, persino dei loro autori e produttori. Sopravvivono anzi a essi, a volte andando oltre le originarie intenzioni.
Lavorare sull’immaginario
In occasione del ventennale di Genova 2001 e del (quasi) decennale del film, con Fandango abbiamo deciso di pubblicare un volume sulla lavorazione. Le fotografie di Alfredo Falvo raccontano in maniera limpida il gigantismo del set ma anche il coinvolgimento di tutte e tutti coloro che vi hanno lavorato. Per me è stato un viaggio singolare ripercorrere momento per momento le vicende del set, anche perché da quelle fotografie emerge con chiarezza l’adesione profonda, dal punto di vista artistico, all’immaginario collettivo proposto da quel famigerato G8. Ed emerge il duro ma affascinante lavoro su quell’immaginario.
Un film parla attraverso le immagini e attraverso le emozioni dei personaggi. Se non sa comunicare con questi elementi non serve a niente e non fa vivere nessuna esperienza allo spettatore. La cosa più difficile in certi racconti che prendono spunto da fatti realmente accaduti è proprio confrontarsi con il dato reale, perché può essere schiacciante. In Diaz gran parte del lavoro artistico parte da quella “realtà” documentata da migliaia di ore di video, centinaia di migliaia di fotografie, migliaia di articoli e decine di migliaia di pagine di trascrizioni processuali. Il film parte da questi dati per poi distaccarsene attraverso una struttura di racconto avvolgente che fa sì che lo spettatore si ritrovi immerso in un mondo, che lo conosca o meno, che lo condivida o meno.
Ma per cosa? Per convincerlo? O per spingerlo infine a farsi delle domande? È la prima cosa che ci siamo detti con Domenico Procacci quando ha deciso di produrlo: il film è pensato per chi a Genova non ci è andato, per chi non ne sa assolutamente niente, o per chi ha delle idee preconcette. Non solo quindi per chi ha militato nel movimento. Tra l’altro chi ci è andato per lo più ne è rimasto travolto, traumatizzato direi, spesso al punto da non capire la dinamica degli elementi che lo hanno travolto. Così, magari a distanza di tempo, ha voglia di guardare in faccia la conseguenza di una folle gestione politica e militare di quell’evento.
Fare propaganda
Ho sempre avuto in mente che quelle domande dovessero essere radicali. Domande sulla inanità della politica, sulla nostra contorta storia nazionale, sul destino dei cittadini, degli esseri umani denudati e vilipesi dinanzi al totem del potere di uno stato che in Italia (ma non solo) è come Crono che mangia i suoi figli.
All’uscita il film è stato criticato soprattutto da sinistra. Certi comunicati stampa di alcuni spezzoni di movimento somigliano incredibilmente a quelli di alcuni sindacati di estrema destra della polizia. Per questi ultimi il film racconterebbe la violenza della polizia ma non le responsabilità dei manifestanti e, specularmente, per i primi non racconterebbe abbastanza le motivazioni dei manifestanti ma solo la repressione. Come se un film dovesse riuscire dove la comunicazione della polizia ha fallito o laddove l’azione politica e la comunicazione del movimento non hanno saputo condurre la pubblica opinione. Già, siamo ancora qui, si chiede a un film di fare propaganda.
Questa “specularità” di vedute nasconde uno scacco intellettuale e storico dinanzi a una eruzione di sistematica violenza militare che spiazza aggrediti e aggressori e rende manifesta (per certi versi finalmente) la liceità della pratica della tortura in Italia. Purtroppo a tante componenti della sinistra, esattamente come a destra, la battaglia contro la tortura pare superflua, perché sarebbero più importanti le “motivazioni” di questa o di quella formazione o movimento.
Quindi qualcuno potrebbe anche pensare, e dire, che a Santa Maria Capua Vetere i poliziotti abbiano fatto bene a massacrare sistematicamente per quattro ore decine di detenuti come fossero in un carcere egiziano, e magari aggiungere, senza credere di essere in contraddizione, che un altro discorso è quello su Bolzaneto e sulla Diaz, perché è un discorso “politico”. Cioè la polizia avrebbe torturato i manifestanti a Genova per le loro idee politiche invece i detenuti per le loro azioni violente. Forse c’è un po’ troppa confusione su questi temi, perché un dibattito pubblico così distorto finisce sempre per non mettere minimamente in discussione la liceità stessa della pratica della tortura.
Come se la tortura fosse una “normale” pratica violenta, di quando in quando persino legittima. È chiaro che il “giustizialismo” da quattro soldi che da decenni ha preso il sopravvento in Italia in tutti i settori politici ha creato grossi danni. Per questo da vent’anni resto perplesso dinanzi certe argomentazioni sul G8 di Genova. Sta di fatto che il film ha svolto sui quei fatti la funzione che le immagini della videosorveglianza hanno in questi giorni svolto sul carcere di Santa Maria Capua Vetere, cioè Diaz ha reso manifesto il nocciolo della questione: la sospensione brutale dei diritti di cittadinanza e, sic et simpliciter, dei più elementari diritti umani. Ma evidentemente fa più comodo fare discorsi dietrologici su complotti internazionali o su luceferini politici manovratori.
Il vero problema, con certe posizioni lo ha rilevato con sarcasmo Pier Paolo Pasolini: “i movimenti” troppo spesso amano l’espressione artistica “organica”, cioè quella che corrisponde a certe parole d’ordine. Queste posizioni il poeta le ha definite zdanoviste. Zdanov era un “vero” combattente rivoluzionario che prima di difendere valorosamente Leningrado dall’assedio nazista, ha fatto una lunga carriera nel Pcus facendosi fedele interprete dei dogmi staliniani. Ha contribuito a elaborare persino le linee guida del “realismo socialista” con norme e regolamenti che hanno mortificato la incredibile vitalità delle arti sviluppatesi intorno e dentro la rivoluzione d’ottobre, conducendole infine all’estinzione. Poi se ne pentì amaramente ma era ormai tardi, Stalin aveva azzerato la rivoluzione.
Queste posizioni normative sono rimaste ben salde a lungo nell’inconscio degli uomini politici di una parte della sinistra anche quando si professano “libertari” o “pacifisti”. È una degenerazione della cultura politica che va combattuta senza sconti.
Quella degenerazione porta a pensare che un film che non sia funzionale al discorso politico non abbia alcun valore. Ma nessun film potrà mai risollevare le sorti di movimenti o dirigenti politici costituzionalmente non in grado di comunicare con il resto del mondo, testardamente chiusi nelle proprie idiosincrasie o interessi di parte. Questi soggetti non comunicano perché hanno un approccio schematico con l’esistente. Quindi un film provocatorio come Diaz non lo digeriscono. Mentre il pubblico, sebbene abbattuto, toccato, scosso, dopo dieci anni continua a prenderlo per ciò che è: un film. Certo, un film doloroso sul quale discutere, magari arrabbiarsi e poi però riflettere. Tutto qua.
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