A vent’anni di distanza dal G8 di Genova, la storia processuale racconta che i reati contro i beni materiali – negozi, vetrine e bancomat distrutti – sono stati puniti con pene dai 6 ai 13 anni, i reati contro le persone perpetrati alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto, invece, sono finiti quasi prescritti e con una pena massima di tre anni. Per la morte di Carlo Giuliani il processo si è concluso con il proscioglimento del carabiniere Mario Placanica per legittima difesa. Anche per questo ciò che è accaduto nel 2001 è stato per la giustizia italiana uno spartiacque per le modalità di indagine, l’utilizzo delle misure cautelari e la scelta dei titoli di reato applicabili.

Le pene più pesanti sono state inflitte ai manifestanti in quello che è stato ribattezzato dai media come il «processo ai 25», che poi sono diventati dieci manifestanti, a cui i giudici hanno inflitto pene complessive per quasi 100 anni di carcere. Per loro il reato principale è quello di devastazione e saccheggio, previsto dall’articolo 419 del codice penale. Il reato risale al codice Rocco del 1930 ed è inserito nei delitti contro l’ordine pubblico risalenti al regime fascista, con pena prevista dagli otto ai 15 anni di carcere.

«Il reato di devastazione e saccheggio, che ha una pena minima molto alta, è tornato a Genova dopo essere caduto in desuetudine. L’ultima volta che era stato utilizzato risaliva al secondo dopoguerra, nei casi in cui briganti facevano razzie nei paesi abbandonati. Noi come difesa ne abbiamo contestato l’uso, perché ci sembrava che i fatti del G8 non integrassero quella fattispecie, che prevedeva appunto il sovvertimento di una intera area», spiega Ezio Menzione, avvocato che era presente a Genova e ha difeso alcuni manifestanti in tutti e tre i procedimenti penali che sono seguiti ai fatti del G8. «Secondo noi quel reato non era applicabile a fatti avvenuti durante le manifestazioni, ma la nostra linea non è stata accolta dai giudici. E, come sempre accade, l’esempio di Genova è stato ripreso da altre procure».

Colpevoli e colpevoli

Le ragioni di questa scelta di titolo di reato, confermata in tre gradi di giudizio, è chiarita dalla Cassazione nella sentenza definitiva. Secondo i giudici, non poteva essere accolta la richiesta dei difensori di derubricare il reato a quello di danneggiamento perché i manifestanti avevano «la consapevolezza di partecipare a un’azione delittuosa comune e di porre in essere fatti il cui esito supera la gravità ordinaria del delitto di danneggiamenti». Infatti secondo i giudici, «nel momento in cui si rompe una vetrina e si lancia una molotov nel negozio, si è consapevoli che tale gesto è più grave del fatto in sé, del danneggiamento provocato dall’azione. Tutto è stato concertato».

I membri delle forze dell’ordine che avevano condotto quella che da uno di loro verrà definita la «macelleria messicana» della scuola Diaz e la mattanza della caserma di Bolzaneto, invece, sono stati condannati principalmente per reati di calunnia e falso per le omissioni e i depistaggi nelle indagini. Quanto alle violenze il reato ipotizzato è stato solo quello di lesioni, che prevede una pena dai sei mesi ai tre anni e che per alcuni di loro si è prescritta. Per nessuno è stato ipotizzato il reato di tentato omicidio e fino al 2017 l’ordinamento giuridico italiano non prevedeva il reato di tortura, oggi punito fino a 12 anni.

Per condannare l’Italia al risarcimento e riconoscere che nella notte del 22 giugno si è verificato quello che per l’ordinamento internazionale è configurabile come tortura è servito il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo di Arnaldo Cestaro, sessantaduenne vittima del pestaggio alla Diaz dove gli hanno rotto un braccio, una gamba e dieci costole.

Chi è stato?

Il risultato dei processi paralleli a manifestanti e forze dell’ordine è emblematico. Per i manifestanti che hanno commesso atti di violenza contro le cose le pene sono state esemplari e alcuni di loro stanno ancora terminando di scontarle. Per i poliziotti che hanno commesso reati contro le persone, picchiando i manifestanti alla Diaz e torturandoli, secondo la definizione della Corte europea dei diritti dell’uomo, a Bolzaneto, le pene sono state nettamente più basse o inesistenti.

«Per identificare i manifestanti, la procura di Genova aveva istituito un team e si è impegnata fino in fondo per le identificazioni, procedendo contro chi veniva individuato e scegliendo di ipotizzare non il reato di danneggiamenti, ma quello molto più grave di devastazione e saccheggio», spiega un consulente tecnico per le difese e attivista di SupportoLegale, progetto nato nel 2004 per sostenere la difesa di tutti gli imputati dei processi ai manifestanti e per aiutare la segreteria legale del Genoa legal forum.

Al contrario di quanto è successo per i poliziotti della Diaz e di Bolzaneto: agivano coi volti coperti dai caschi, il processo non è servito a chiarire chi era presente durante i pestaggi. Ancora oggi, a vent’anni di distanza, non è stato possibile identificare nemmeno tutte le firme dei dirigenti sui verbali di polizia: risultano non leggibili e nessuno all’interno delle forze dell’ordine ne ha permesso l’identificazione. Proprio questo limite è stato messo in evidenza dalle motivazioni della sentenza di primo grado contro i poliziotti: «Per difficoltà oggettive (non ultima delle quali, come ha evidenziato la pubblica accusa, la scarsa collaborazione delle forze di polizia, originata, forse, da un malinteso “spirito di corpo”) la maggior parte di coloro che si sono resi direttamente responsabili delle vessazioni risultate provate in dibattimento è rimasta ignota».

Ancora in carcere

Nel 2012 la Cassazione ha confermato le condanne a dieci manifestanti con pene dai sei anni e mezzo a Ines Morasca fino ai 13 anni e tre mesi a Vincenzo Vecchi. Ancora oggi per quattro di loro il G8 di Genova non è un passato che si può dimenticare. Francesco Puglisi, condannato a 14 anni, si trova in affidamento esterno mentre Marina Cugnaschi sta scontando la pena di 11 anni e nove mesi e ora si trova in regime di sorveglianza. I due casi noti alle cronache recenti, infine, sono quelli di Luca Finotti e Vincenzo Vecchi.

Finotti, condannato a 8 anni, oggi ne ha quarantadue: fuggito in Svizzera per evitare la pena, è stato arrestato nel paese elvetico e lì ha scontato tre anni, poi è stato estradato per finire di scontare la pena in Italia. Era stato affidato a una comunità, ma il 9 giugno scorso il permesso gli è stato revocato ed è rientrato nel carcere di Cremona dove rimarrà fino a fine 2022: ha violato le regole della comunità, perché si è fatto portare da un visitatore un pacchetto di tabacco non dichiarato.

È invece in corso la pratica per l’estradizione dalla Francia di Vecchi, quarantasette anni. Arrestato nel 2019 dopo otto anni di latitanza, la Cassazione francese ha negato l’estradizione e a inizio 2021 ha chiesto che il caso sia oggetto di parere della Corte di giustizia europea.

 

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