Nel protocollo con Rama un calcolo preciso: la falla è da imputare ai tribunali. Il governo alza i toni fingendo di non capire il rischio di questa scelta. Colpisce lo stato di diritto e intima ai pm di sottostare al volere del popolo
Lo sdoganamento della parola «infame» nel lessico pubblico della destra è la spia linguistica di uno scivolamento in corso, per niente casuale. Giorgia Meloni ha usato la parola «infame» all’indirizzo di un ignoto “fratello” traditore che aveva spifferato i casi di FdI alla stampa.
Qualche giorno dopo il devotissimo dirigente Rai Paolo Corsini ha dato, ai microfoni di Piazzapulita, dell’«infame» al collega Corrado Formigli, peraltro senza spiegare la presunta infamità compiuta e spiegando, successivamente, che in realtà si riferiva a un «gradino». La gratuità dell’uso di questa parola è un’aggravante, un disastro per un giornalista. Ma è solo un esempio del linguaggio d’odio che arriva dall’alto.
Succede in questi giorni. C’è un calcolo a freddo dietro il varo del «modello Albania». La premier che l’ha progettato sin dall’estate del 2013, durante uno spritz con il presidente Edi Rama, sapeva che il costoso ambaradam era un investimento ad alto rischio.
Lo ha ammesso due giorni fa: «Avevo messo in conto che il protocollo avrebbe dovuto superare molti ostacoli, però lì supererà». Vedremo gli esiti, e il possibile danno erariale. Resta che il piatto velenoso consisteva nello scaricare sui magistrati – che avrebbero quantomeno potuto decidere di non confermare il trattenimento dei migranti in Albania – il costo politico delle falle dell’operazione.
L’esempio berlusconiano
Meloni, e i suoi consiglieri, non possono non conoscere la prevalenza della normativa europea su quella nazionale. Ma lei ha messo nel mirino i giudici. La campagna denigratoria va avanti da giorni. «Decisione pregiudiziale», «irragionevole», «menefreghismo rispetto volontà popolare». «Sentenza abnorme» ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, usando il termine tecnico alla vigilia di un’azione disciplinare, di cui non si ha notizia.
Prima Matteo Salvini ha convocato i parlamentari e i ministri leghisti in piazza a Palermo a contestare il processo Open Arms in cui è imputato. Anche da lì è arrivata una pioggia di attacchi ai giudici: «Fanno politica di sinistra pro migranti e pro ong», «cercano di smontare le leggi dello stato», «candidatevi se non vi va bene niente di quello che fa il governo».
L’attacco alla magistratura non è una novità nella cronaca di questo governo, né nella storia della destra italiana. Meloni e Salvini attingono alle riserve del berlusconismo, un catalogo di idee all’occasione per distrarre la cittadinanza, alzare la temperatura nel paese e mobilitare l’elettorato.
Non sappiamo se funziona: in Liguria si sono scagliati contro le inchieste che hanno travolto Giovanni Toti. Ma Toti ha patteggiato e gli ha smontato la favola. Al fondo c’è comunque l’irrefrenabile velleità dei «pieni poteri», e cioè di considerare il voto un conferimento di un potere senza limiti.
Nei giorni scorsi la seconda carica dello stato, Ignazio La Russa, ha proposto un «riperimetrazione» alla separazione dei poteri contenuta nel Titolo IV della Carta. Una proposta più che orbaniana, con tanti saluti a Montesquieu, consegnata distrattamente a un’intervista a Repubblica. Alla domanda incredula del cronista il presidente del Senato ha risposto come al bar: «Perché no?». Una cosa grave ma non seria, così interpretiamo il silenzio del Colle. Una boutade che dà la misura di come gli alti gradi della destra maneggino lo stato di diritto.
Ma una novità c’è. È che sul terreno dello scontro fra destra e magistrati si sta giocando la sfida fra Salvini e Meloni. Una nerissima gara canora in cui i due cercano di superarsi nello strillo sgangherato contro le “toghe rosse”. Così aizzando plotoni di militanti e odiatori professionali al tiro al piccione.
È successo, e anche qui non ci voleva molto a immaginarlo, che in conseguenza a questo clima sono arrivate le minacce di morte ai giudici di Palermo, che devono decidere sul caso Open Arms, e alla giudice del tribunale di Roma, una delle magistrate delle sentenze “albanesi”. I minacciati sono stati messi sotto protezione.
È inutile domandare se è giustizialismo chiedere che i magistrati facciano liberamente il loro lavoro di tutela delle garanzie, e se è garantismo pretendere che essi si adeguino invece alla «volontà popolare». Né il punto è schierarsi con o contro uno o ogni magistrato. Basterebbe rileggere il diario di Adelaide Ajetta, la segretaria radicale che fu giudice popolare di un processo alle Br: ci spiegava che in gioco c’era il ripristino della legalità costituzionale e dello stato di diritto.
Giudici minacciati
Oggi siamo però all’effetto paradosso di questa destra: con una mano il salvinismo-melonismo alza la palla alle minacce, è un «cattivo maestro» per dirla come la direbbero loro a parti inverse, con l’altra mano il Viminale salviniano deve affrettarsi a mettere sotto scorta i magistrati schiaffati nel mirino. La destra attacca al cuore lo stato di diritto, e lo fa sdoganando parole d’odio. Usa l’odio per accrescere il consenso. Fingendo irresponsabilmente di non vedere cosa c’è alla fine di questo tunnel.
Nel rapporto della commissione Ecri che ha indignato il presidente della Repubblica per i giudizi severi sulle nostre forze dell’ordine, c’è anche un paragrafo, il 58, che tocca questo tema. Dice che «l’atmosfera creata dai discorsi politici e dalle varie dichiarazioni pubbliche sul tema della migrazione (...) mina l’indipendenza della magistratura quando si occupa di casi di immigrazione».
La profilazione dei giudici non è un servizio alla giustizia né al confronto civile. Fra l’altro, spiega il magistrato Stefano Musolino, «l’accusa di parzialità è rivolta solo ai magistrati che prendono decisioni sgradite al governo». Comunque sia, «un magistrato parla con la qualità delle motivazioni delle sentenze».
L’esempio a cui si riferisce è quello della giudice Apostolico, messa in croce per aver disapplicato, come poi altri giudici, il decreto Cutro e non convalidato l’arresto di un migrante. Nel pieno della bufera mediatica, il Viminale è ricorso in Cassazione contro la sentenza. Ma poi ha rinunciato, riconoscendo l’inattaccabilità della motivazione. Ma questo Salvini e Meloni non lo raccontano: resta l’odio sparso, nella narrazione della destra Musolino resta una «toga rossa». Nella realtà però il Viminale le ha dato ragione.
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