- Non solo la farina di grillo. In Europa e in Italia i politici di destra a tavola insinuano che ci sia una classe intellettuale e progressista che disprezza le proprie tradizioni, incluse quelle culinarie
- E invece anche le ricette appartengono a tutti, sono elementi di un patrimonio comune, senza distinzioni
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Questo articolo si trova sull’ultimo numero di POLITICA – il mensile a cura di Marco Damilano. Per leggerlo abbonati o compra una copia in edicola
Il governo Meloni non sembra perdere occasione per aprire un fronte di battaglia retorica, in cui presentarsi come difensore della nazione contro la cabala “globalista”, a cui annovera chiunque si opponga a esso.
Oltre ai famosi rave party, tema così urgente da venirgli concesso l’onore del primo decreto legge del governo, l’immigrazione (con annessi sospetti di sostituzione etnica), e la gravidanza surrogata su cui il governo ha concentrato l’attenzione dell’opinione pubblica nelle ultime settimane, uno dei temi decisivi è il cibo. Il governo e il suo ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida si sono ripetutamente lanciati in attacchi contro la minaccia che secondo loro viene posta alla cucina italiana da una serie di forze che sarebbero intenzionate a stravolgere le nostre tradizioni culinarie.
Una delle questioni che vengono agitate è l’ormai celebre farina d’insetti che, a sentire la retorica del governo, qualcuno vorrebbe obbligarci a ingerire. È vero che negli ultimi anni è stata aperta a livello internazionale la vendita a questi alimenti descritti come novel food (anche sulla scorta della preoccupazione per gli effetti degli allevamenti sul clima), e che l’Unione europea ha dato recentemente il via libera alla commercializzazione della farina di grillo. Tuttavia, è evidente che su questo tema il governo ha alimentato un allarmismo che se da un lato non ha attinenza alla realtà dall’altro ci rivela quanto cerchi di giocare su questioni identitarie per eccellenza come il cibo.
Il bisteccone
In Spagna, il ricercatore Iago Moreno ha usato il termine “gastropolitica” per riferirsi al modo in cui il cibo è stato portato nel dibattito politico in Spagna, con una contrapposizione per certi versi simile a quella vista in Italia. Esemplificativo è la campagna di opinione pubblica passata agli annali come il “dibattito sul chuleton” (il bisteccone), uno dei piatti più amati dal popolo spagnolo famoso per la sua indulgenza per la proteina animale. Nel gennaio scorso il ministro del consumo Alberto Garzon di Izquierda Unida aveva osato criticato i grandi allevamenti di bestiame, sostenendo che la carne prodotta in questo modo fosse poco ambientalmente sostenibile e poco salutare.
Le dichiarazioni hanno sollevato un’ondata di rabbia da parte degli allevatori, con proteste di fronte al ministero e attacchi da parte di tutta la destra, dal Pp a Vox, il partito di estrema destra spagnolo che in modo simile a Fratelli d’Italia si presenta come custode della tradizione.
L’episodio ha alimentato accuse alla sinistra di essere diventata una “sinistra tofu” (come equivalente vegano della “gauche caviar” o per usare un altro termine usato in Spagna la “sinistra salmone affumicato”). Il primo ministro Pedro Sánchez, in una tipica manifestazione dell’equilibrismo politico di cui il Psoe, in modo simile a altri partiti di centrosinistra, è diventato maestro, intervistato sul tema, affermava che non era una persona da dire no «a un buon chuleton».
La task force di Lollobrigida
In Italia, oltre al dibattito sulla farina di grillo è ormai da anni che i politici di destra battono sulla carta cibo. Basta pensare a Salvini la cui immagine di influencer politico lo ha visto alle prese con sagre e piatti tipici, nei contesti più disparati. Le foto di Salvini che addenta uno spiedino, una costina, una forchettata di spaghetti, gnocchi di patate, sono diventate una delle immagini più familiari della quotidianità della politica sui social.
Inoltre, è da tempo che la destra cerca di presentarsi come la forza che difende l’agricoltura tradizionale e che prende le parti dei piccoli produttori, schierandosi con la Coldiretti su tutte le vertenza, mentre si alimenta il sospetto che la sinistra non abbia interesse nel tema, o peggio che sia alleata con le grandi multinazionali e la grande distribuzione.
L’ultimo esempio della gastropolitica nostrana è la promessa del ministro dell’agricoltura Lollobrigida di creare una task force che dovrebbe andare a verificare in giro per il mondo se i ristoranti che si definiscono italiani rispettano effettivamente le ricette tradizionali o se sono responsabili di crimini contro la nostra tradizione quali mettere la panna nella carbonara.
I “commenti arrabbiati degli italiani sul cibo” è ormai diventato un meme social, con pagine dedicate, vista la nostra nota sensibilità sul tema. Ma quello che vediamo all’opera è un’operazione molto più seria che ci dice molto sulla strategia politica della destra e il suo tentativo costante di politicizzare temi di natura culturale.
Appropriazione indebita
La gastropolitica è una perfetta manifestazione del modo in cui la destra cerca di rivendicare la proprietà di istituzioni e rituali che garantiscono la coesione sociale e culturale di una comunità. La destra cerca di appropriarsi politicamente di pratiche culturali come le ricette di cucina che per definizione dovrebbero appartenere a tutti, essere elementi del patrimonio culturale di una nazione, quello che è condiviso da tutti al di là delle appartenenze politiche. Quello che la destra cerca di fare, al contrario, è cercare di insinuare che quel patrimonio non sia effettivamente di tutti, ma che ci sia una classe intellettuale e progressista, una “nuova élite” (per usare l’espressione del politologo britannico Matthew Goodwin) che disprezza le proprie tradizioni, incluse quelle culinarie e che è pronta a abbracciare entusiasticamente qualsiasi nuova moda globale le venga proposta, compresa la farina di insetti.
In fondo è un’operazione simile all’appropriazione del primo verso dell’inno nazionale per dare il nome a un partito politico di estrema destra, con la conseguenza che adesso cittadini che sono di opinione politica diversa si trovano a declamare il nome di un partito avverso quando cantano l’inno. Un’operazione di appropriazione indebita della cultura nazionale, già anticipato a suo tempo da Berlusconi dando al suo partito il nome di Forza Italia.
La risposta da sinistra
Come rispondere alla gastropolitica di destra? La tentazione nello scontro politico e social-mediatico è come sempre quello di andare in direzione “ostinata e contraria”, ad esempio facendo notare come la farina di insetti sia un’innovazione potenzialmente positiva nella lotta al cambiamento climatico; o ricordando, in senso più cerebrale, quanti piatti che già mangiamo ogni giorno (dal miele, allo yogurt di frutti di bosco, all’aranciata) contengano insetti o siano derivati degli insetti.
Ma questo significa proprio cadere nella trappola retorica preparata dalla destra: accettare il terreno di scontro, proprio quando questo terreno di scontro è costruito su un presupposto inaccettabile, sull’accusa all’avversario politico di non essere parte della stessa cultura e della stessa tradizione.
In questa, come in molte altre occasioni simili, la migliore risposta al trigger (ovvero alla provocazione) del troll, è farla cadere nel vuoto. Al contempo, se la retorica di destra che vuole rappresentare se stessa come frequentatrice entusiastica di sagre, polentate e spaghettate all’aperto e la sinistra come snob e fighetta ha una certa presa, è anche riflesso di una composizione del personale politico di sinistra che si è molto imborghesito negli ultimi anni.
Nel passato e in altri paesi i leader socialdemocratici non hanno perso occasione per farsi vedere in sagre, fiere e festività e alle prese con piatti tradizionali, per celebrare la propria partecipazione entusiastica alle tradizioni che uniscono un paese. In una politica in cui la popolazione ha molta sfiducia nella classe politica, a quest’ultima è utile fare vedere che quantomeno con i propri elettori condivide i medesimi piatti.
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