Da anni il consigliere usa i rapporti internazionali e Oltretevere per rendere più potabile la linea sovranista. I tentativi sono spesso andati a vuoto, ma ora si gioca tutto per far capire al leader che ha un’opportunità
- Giancarlo Giorgetti sta alla Lega come Gianni Letta sta a Forza Italia: inscalfibile, è stato il braccio destro di Umberto Bossi nell’era secessionista, ha superato la stagione dei “barbari sognanti” di Roberto Maroni e ora è il numero due di Matteo Salvini.
- Non a caso, è stato lui il primo ad aprire all’esecutivo Draghi. Chi lo conosce bene racconta che i due si conoscono dai tempi in cui Giorgetti era presidente della commissione Bilancio e Draghi a Bankitalia.
- Adesso, tutto dipenderà dalla moral suasion che il Gianca saprà esercitare sui ranghi del partito per portarlo nella direzione che lui non ha fatto mistero di preferire: entrare nel nuovo governo e “normalizzare” il sovranismo. Con o senza Salvini.
Per le vie della sua città, Varese, e tra i leghisti è noto come “il Gianca”. Giancarlo Giorgetti sta alla Lega come Gianni Letta sta a Forza Italia: inscalfibile, è stato il fedelissimo braccio destro di Umberto Bossi nell’era secessionista (al punto d’essere l’unico ammesso in ospedale dopo l’ictus del 2004); ha superato indenne la stagione dei “barbari sognanti” di Roberto Maroni nonostante i due non si siano mai amati per quelle che nella Lega vengono definite «robe varesotte», gelosie territoriali; ora è il numero due di Matteo Salvini.
Mai del tutto capito dal popolo di Pontida a causa dell’aura da burocrate e della laurea in economia aziendale alla Bocconi, silenzioso al limite della reticenza, è cerniera di congiunzione con il mondo del credito e delle banche e l’eminenza grigia da cui passano tutte le questioni più delicate. Quello che raddrizza la traiettoria quando il partito rischia il testacoda. Lo ha fatto nel 2019, portando Matteo Salvini negli Stati Uniti a incontrare alcuni vertici del Partito repubblicano: un segnale necessario per ripristinare il dialogo con gli americani, incrinato dall’inchiesta sui fondi russi alla Lega e dalle ripetute aperture di Salvini verso Mosca e la Cina.
Ha fatto la stessa cosa anche con l’Europa, per tamponare le dichiarazioni del deputato no-euro Claudio Borghi, che parlava di uscire dalla moneta unica con l’iniziale silenzio-assenso del leader. In quel caso, Giorgetti aveva alzato il telefono per rassicurare proprio Mario Draghi, capo della Banca centrale europea.
Il rapporto con Draghi
Non a caso, è stato lui il primo ad aprire all’esecutivo Draghi. Chi lo conosce bene come Gianni Fava racconta che i due si conoscono dai tempi in cui Giorgetti era presidente della commissione Bilancio e Draghi a Bankitalia: «La stima di Giancarlo nei confronti di Draghi è storica e non è mai stata nascosta. Non è certo nata in questi giorni».
I due si danno del tu, in virtù di un rapporto di amicizia trentennale coltivato in telefonate diventate sempre più frequenti con la crescita della Lega. Durante il Conte I, dal suo ruolo alla presidenza del Consiglio sarebbe stato il terminale del presidente della Bce per sondare le fibrillazioni del governo e soprattutto per ricevere rassicurazioni sulla manovra economica del 2018, che impensieriva non poco l’Europa. Sempre Giorgetti sarebbe stato anche il primo ad avere la certezza – su imbeccata di Draghi – che il presidente della repubblica avrebbe dato il via libera al governo con i Cinque stelle, ma senza Paolo Savona al ministero dell’Economia.
Del resto, proprio il rapporto con il possibile futuro premier è perfettamente inserito nella rete di contatti che hanno sempre permesso a Giorgetti di mantenere la Lega nella posizione che predilige: partito di lotta e di governo. E oggi il suo endorsement così deciso per un esecutivo Draghi non è certo condizionato dal rapporto amicale, ma da un disegno di medio-lungo periodo che dovrebbe riportare la Lega al centro dei giochi politici. In quest’ottica sta lavorando sottotraccia da tempo, tessendo una nuova sintonia con l’Unione europea con l’avvicinamento della Lega al Partito popolare europeo. Ma soprattutto riposizionando il Carroccio sulla linea atlantista: a nessuno è sfuggito che è stato il primo leghista a fare i complimenti al nuovo presidente Joe Biden, con buona pace della delusione del trumpiano Salvini.
Il Vaticano e l’America
I suoi legami con oltreoceano sono stati favoriti dall’intercessione d’Oltretevere. Giorgetti è l’uomo di fiducia della parte più conservatrice delle gerarchie vaticane. Quando è a Roma, alloggia in un immobile in pieno centro di proprietà dell’Opera romana pellegrinaggi e rapporti stretti lo legano all’ex banchiere dello Ior Ettore Gotti Tedeschi e al presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti. Proprio il suo incrollabile filoamericanismo lo ha reso il leghista di riferimento anche per il presidente della repubblica Giorgio Napolitano, atlantista convinto, che nel 2013 lo inserì nella commissione dei dieci “saggi” chiamati a elaborare un programma di riforme istituzionali ed economiche a favore del nuovo governo, che poi diventerà l’esecutivo di Enrico Letta.
Gerarchie vaticane, patto atlantico e burocrazia europea sono sempre sono i punti cardinali del teorema politico di Giorgetti. «Un fronte di scontro lo puoi reggere, due forse, tre no. Altrimenti non si può tornare al governo», sarebbero state le sue parole a Matteo Salvini, nel tentativo di convincerlo a smussare la linea del partito e a non isolarlo su posizioni troppo radicali. Una linea di cui non ha mai fatto mistero è che gli è valso l’etichetta giornalistica di “demoleghista”, nonostante non sia mai stato democristiano e anzi i suoi trascorsi politici prima della Lega siano stati nel Fronte della gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano.
Calcio e stadi
Oltre alla politica e ai numeri, il suo terzo amore è il calcio, che è anche la fonte indiretta di alcuni guai giudiziari, mai culminati però nemmeno in un’imputazione. La squadra del cuore è il club inglese del Southampton che tifa da quando aveva dieci anni, la sua laurea con lode è frutto di una tesi sugli stadi dei mondiali di Italia ’90 che analizzava gli appalti e gli sprechi. «Se vuoi questi soldi puoi darli alla polisportiva Varese, non a me» avrebbe detto al banchiere Gianpiero Fiorani della banca popolare di Lodi, quando lui nel 2004 si era presentato nel suo ufficio alla Camera con 100mila euro in contati, occultati dentro un giornale. Giorgetti restituì la mazzetta ma non denunciò il tentativo di corruzione, che emerse invece dai verbali di interrogatorio di Fiorani nel 2006 nel corso delle indagini sull’operazione Antonveneta.
Gli stadi, invece, ritornano nei suoi rapporti con Luca Parnasi, costruttore romano che nel 2017 era protagonista assoluto nella corsa per la realizzazione del nuovo stadio cittadino e indagato per corruzione proprio nella vicenda del nuovo stadio della Roma. Poi, anche per finanziamento illecito all’associazione Più voci, fondata dal tesoriere della Lega Giulio Centemero, su cui pende una richiesta di rinvio a giudizio. Parnasi e Giorgetti cenano insieme in almeno due occasioni, in una delle quali è presente anche Matteo Salvini.
Un mondo variegato, quello di Giorgetti, che ora, con l’arrivo di Draghi, potrebbe riallinearsi. Tutto dipenderà dalla moral suasion che il Gianca saprà esercitare sui ranghi del partito per portarlo nella direzione che lui non ha fatto mistero di preferire: entrare nel nuovo governo e “normalizzare” il sovranismo. Con o senza Salvini.
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