Giorgia Meloni non è una boomer. Anagraficamente, 46 anni, sta nella terra di mezzo tra i prossimi alla pensione e chi si affaccia, o dovrebbe affacciarsi, al mondo del lavoro. Ma le politiche del suo governo adottate sinora certo non avvantaggiano i giovani. È esplosa proprio in questi giorni la “protesta delle tende”, universitari fuori sede che denunciano il caro affitti e, conseguentemente, il diritto allo studio.

L’esecutivo, anziché incidere su una rendita improduttiva, ha pensato bene di non rifinanziare il fondo che aiuta a pagare le pigioni e che il governo Draghi aveva portato a 330 milioni di euro. In Italia ci sono 800mila ragazzi iscritti in atenei lontani da casa e hanno a disposizione 39mila posti letto.

La domanda eccede in modo clamoroso l’offerta a tutto vantaggio di proprietari che possono fissare il prezzo in un mercato impazzito. E drogato dall’inclinazione ormai in uso a destinare gli immobili ai turisti mordi e fuggi: più guadagno per locazioni di tempi brevi o brevissimi. Né è andata meglio ai venti/trentenni con il decreto lavoro che reintroduce i voucher, estende i contratti a tempo determinato, insomma precarizza le forme di lavoro disinvoltamente usate con chi non gode delle garanzie di un contratto stabile, generalmente i più avanti con l'età.

La Spagna

AP

Non deve stupire allora che la vicepremier e ministro del Lavoro spagnola Yolanda Dìaz attacchi la Meloni accusandola di «voler governare contro lavoratrici e lavoratori e tornare al modello dei contratti spazzatura». Dìaz, avvocato di professione e astro nascente della sinistra, sa di cosa parla avendo dovuto intervenire sulle leggi dei governi dei popolari Aznar e Rajoy per cambiarle radicalmente e reintrodurre diritti che erano stati cancellati in nome del liberismo.

Fine dei contratti a termine per “opere e servizi”, obbligo di assunzione se si sono superati diciotto mesi di contratto in due anni, più garanzie per chi è occupato nel turismo, settore per sua natura stagionale e dunque precario. Risultato: la Spagna ha superato la quota psicologica dei 20 milioni di occupati; i senza lavoro sono scesi sotto i tre milioni; la disoccupazione giovanile è precipitata dal 38 al 28 per cento; i giovani sono la metà dei nuovi assunti.

Tutto questo mentre i contratti a termine sono diminuiti del 27,7 per cento ed è stato alzano il salario minimo che ora si attesta a 1050 euro. Le nuove generazioni, l'abbiamo imparato, sono destinate a stare peggio di quelle che le hanno precedute, ma ci sono maniere per farle stare un po’ meno peggio.

Si può fare

Si può fare, insomma, si può invertire una tendenza da troppo tempo in atto e in un paese che ha molte similitudini con il nostro. Giorgia Meloni ha fatto spallucce bollando l'uscita della Dìaz come strumentale per «regolare problemi interni».

E magari avvertire l'elettorato su cosa succederebbe se andasse al potere l'ultradestra di Vox, la formazione vicina a Fratelli d'Italia, alle kermesse della quale la premier italiana è stata spesso presente: ricorderete il famoso comizio dell'io sono Giorgia, sono una madre, sono italiana, sono cristiana.

Tuttavia, strumentale o meno, Meloni non può disconoscere i successi di una filosofia di intervento diametralmente opposta alla sua. Così come dovrebbe interrogarsi sul progressivo isolamento che subisce in Europa da parte di paesi pesanti come la Francia e la Spagna, su temi cruciali come l'immigrazione e l'economia.

Né può consolarsi con l'appoggio di quella internazionale sovranista che fa capo ai paesi di Visegrad, grazie alla sua vicinanza con la Polonia, la Repubblica Ceca, l'Ungheria di Viktor Orbán, quello che ha teorizzato la cosiddetta “democrazia illiberale”, da lei difeso, contrariamente alla maggioranza dell'Unione europea, quando ha varato una legge anti-Lgbt.

Succede dunque che si sta a mano a mano affievolendo il credito guadagnato dal nostro governo di destra per la correzione di rotta sull'Europa (a suo tempo definito dalla Meloni “un comitato di usurai”) e le posizione nette a favore dell'Ucraina contro l'aggressione russa oltre alla conferma della piena adesione alla Nato.

Non sono solo l'economia e i migranti a incrinare il rapporto tra Roma e Bruxelles. Nell'agenda delle criticità entrano anche la mancata ratifica del Mes (Meccanismo europeo di stabilità) che ne impedisce l'adozione, l'annosa questione delle concessioni balneari ormai diventata ridicola, i molti provvedimenti del Green deal da approvare prima delle europee dell'anno prossimo sui quali il governo nicchia o ha già espresso dei sonori “no”, ad esempio sulla direttiva per l'efficienza energetica degli immobili.

Stretta tra pegni da pagare alle categorie che l'hanno portata a palazzo Chigi e scorie ideologiche di antica formazione da una parte, e la necessità di incassare i fondi del Pnrr oltre alla benevolenza per qualche falla nel nostro bilancio, Giorgia Meloni sembra giocare una partita scissa. Deve portare un diverso cappello a seconda delle circostanze, ora è l'underdog nostalgica del suo passato settario ora il primo ministro con la responsabilità istituzionale che comporta. Il dualismo non può durare a lungo.

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