- Giorgia Meloni non ha l’eccesso di teatralità, né la propensione al lusso, né il furore giustizialista di Evita. Ma il paragone segnala il rischio che la sua passione politica, possa riscaldarsi troppo
- A Meloni si prospetta ora un cammino diverso da quello dell’icona argentina. Ci si aspetta che il suo tragitto sia dalla piazza al palazzo, e dunque che l’ombra di Evita che ogni tanto fa capolino alle sue spalle si dissolva
- C’è da sperare che Meloni tenga il paragone a debita distanza da sé. Perché quel ritratto che si fa intravedere alle sue spalle è il fantasma che può spaventare le sue buone intenzioni
Può essere calda o fredda, la passione politica. Vera o finta. Temperata dalla fatica della convivenza oppure gonfiata dall’ardore della sua troppa emotività. Può intrecciare in molti modi i registri più diversi, e a seconda dei casi apparire da un balcone o scomparire in una stanza piena di fumo. La passione politica infatti si perde e poi si ritrova in un fitto labirinto di cui gli elettori intravedono contorni sfumati e non sempre così veritieri.
Più complicato ancora stabilire se in quel labirinto esiste una passione femminile almeno in parte diversa da quella maschile. Il pregiudizio del sesso infatti a sua volta traccia percorsi e segnala caratteri assai diversi. Quasi che da quella parte, quella femminile, ci sia un di più di autenticità e di intensità che autorizza poi tutti noi a un di più di indiscrezione.
Non si offenderà dunque Giorgia Meloni nel vedersi paragonata a Thatcher, lady di ferro del conservatorismo inglese e qualche volta a Evita Perón, regina dei descamidos argentini. A loro piuttosto che a Nilde Jotti, icona dello spirito istituzionale della sinistra d’altri tempi. Paragoni forzati, un po’ tutti. Ai quali si potrebbe aggiungere, volendo, lo spirito battagliero di Golda Meir, la solennità ieratica di Indira Gandhi e perfino l’algida professionalità di Hillary Clinton. Un raccolta di storie e di caratteri che Meloni può interpretare come una suggestione o piuttosto come un’insidia. Ma quasi mai come lo specchio in cui veder riflessa senza troppo narcisismo la sua immagine e la sua storia.
A furia di scaldarsi
Di Evita, Meloni non ha l’eccesso di teatralità, né la propensione al lusso, né il furore giustizialista. Per giunta si appresta a governare in prima persona, senza nascondersi dietro il culto di un marito che veniva idolatrato e utilizzato al tempo stesso. Eppure, se il paragone di tanto in tanto si affaccia, ora in forma di avvertimento e ora in forma di sofisticata denigrazione, la cosa non avviene per pregiudizio. Semmai segnala il rischio che la passione politica, sempre lei, possa a volte riscaldarsi oltre una giusta misura. E a furia di riscaldarsi disperdere le sue buone intenzioni nel crogiolo dei sentimenti troppo accalorati.
«Mi piacciono i fanatici e tutti i fanatismi della storia. Mi piacciono gli eroi, i santi e i martiri, qualunque sia stata la causa e la ragione del loro fanatismo». Così recitava Evita ai tempi del suo fulgore argentino. Si scagliava contro “i mezzi peronisti”, come a ribadire che un eccesso di tiepidezza politica, un margine di dubbio, un’incertezza nella fede erano come colpi inferti alla causa. E difendeva con animosità eccessiva i suoi seguaci assicurando loro: «non bado ai difetti dei miei amici più di quanto faccia caso alle qualità dei miei nemici».
Tra piazza e palazzo
Tutte cose per le quali il peronismo argentino cominciò quasi subito a perdersi per strada, consegnando infine alla storia un paese allo stremo, oberato dai debiti e attraversato da conflitti e ferite che il tempo non avrebbe mai del tutto rimarginato. E lasciando in cambio, però, intatta l’icona di Evita, capace anche anni e anni dopo la sua scomparsa di evocare passioni, significati e controversie che da quei tempi piano piano hanno finito per occupare un pezzo dell’immaginazione del mondo.
A Meloni si prospetta ora un cammino assai diverso. Ci si aspetta che il suo tragitto sia per così dire dalla piazza al palazzo, dalla protesta alla responsabilità, dal calor bianco della denuncia a una qualche forma di pacatezza istituzionale. E dunque che l’ombra di Evita che ogni tanto fa capolino alle sue spalle si dissolva tra i fumi di una stagione politica in cui già troppe volte le urla hanno sopravanzato i ragionamenti.
Evita la combattente
Forse anche la moglie di Perón a suo tempo avrebbe potuto celebrarsi come donna, come madre, come cristiana. E più ancora come Evita. E raccontare a piena voce tutte le difficoltà e le amarezze di un percorso da outsider, chiamata a farsi largo tra mille ostracismi e forgiata infine dalla sua stessa fatica. Mille e una volta gli argentini l’hanno vista affacciarsi al balcone e recitare la sua parte di protettrice dei deboli, degli afflitti, delle altre donne (a cui portò in dote il diritto di voto, che non fu certo poca cosa). E mille e una volta però la sua predicazione si perse infine nella nebbia dei suoi esiti.
Era il modello di una combattente intrepida, appassionata, estrema. Incapace di contemplare le vie di mezzo e di rispecchiarsi nell’arabesco complicato delle società pluraliste e democratiche. Quel modello non parla ai giorni nostri, e per fortuna. Ma quella suggestione del calcare la mano, semplificare la realtà, additare amici e nemici, evocare la demagogia come scorciatoia al governo resta pur sempre in agguato. Come se un qualche balcone fosse ogni volta pronto ad accogliere il potente che si fa fintamente popolo e risolve con una concione ad alta voce tutti i problemi che sono rimasti invece al punto di prima.
Icona ormai distante
Quel modello aleggia peraltro anche dalle parti dell’alleanza che Meloni s’è costruita. Laddove lei viene additata ormai come la fatina di Draghi e non più come la regina degli eccessi. Tra alleati che una volta magari le avrebbero rimproverato un tratto peronista, ma ora che quel tratto si è sbiadito sembrano pronti semmai a rimproverarle il contrario. E cioè di non essere quella Evita – caliente e pasionaria – che avrebbe potuto venire più facilmente messa sotto tutela.
Così, c’è da sperare che Meloni tenga l’icona di Evita a debita distanza da sé e cancelli ogni traccia di involontaria somiglianza. Un po’ perché ogni persona ha diritto alla sua, e solo sua, personalità. E un po’ perché quel ritratto che si fa intravedere alle sue spalle è il fantasma che può spaventare le sue buone intenzioni. Buone anche se sempre discutibili, s’intende.
Il mago di Riga, il grande scacchista dipinto da Giorgio Fontana, rivendicava «il diritto a cui ognuno segretamente aspira, vivere al di là delle incombenze e del potere». Ora che si profila il potere, con le sue incombenze, c’è da confidare che Giorgia e il fantasma di Evita abbiano piena contezza, tutti e due, che dovrebbe trattarsi finalmente di un altro potere e di altre incombenze.
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