Dei meccanismi che innescano l’Alzheimer e le sue manifestazioni si conosce ancora poco. Si sa che esistono 104 malattie in grado di portare alla demenza, che l’incidenza aumenta in maniera esponenziale con l’età e che i processi biologici possono svilupparsi anche diversi anni prima dell’insorgere dei sintomi.

Oggi sono numerosi gli studi in corso e anche i nuovi farmaci in diverse fasi di sperimentazione clinica. Si sta poi facendo sempre più strada l’analisi dei contesti specifici, le cosiddette “precondizioni” (come invecchiamento o infiammazioni) che portano ciascun individuo a reagire diversamente al deposito di sostanze riconosciute come rilevanti nell’insorgenza della malattia come la beta-amiloide e la proteina tau (in una sua forma modificata chiamata tau fosforilata).

Il problema dell’Alzheimer non si risolverà con una pillola miracolosa

«Le grandi domande che emergono in più o meno tutti i gruppi di ricerca riguardano da un lato l’intervento di farmaci per modificare l’andamento clinico della malattia, quindi bloccandola in fasi precoci, dall’altro si concentrano proprio sulla diagnosi, sulla ricerca di biomarcatori in grado di segnalare se la persona svilupperà l’Alzheimer prima dell’insorgenza dei sintomi».

A parlare è il dottor Antonio Guaita, geriatra e direttore della Fondazione Golgi Cenci, che sottolinea la complessità, anche dal punto di vista della ricerca, di una malattia che non si risolverà grazie a una pillola magica.

«La nostra idea è che la soluzione non avverrà trovando la chiave che apre la porta, ma la combinazione di una cassaforte». Guaita afferma che a dover essere osservati sono soprattutto gli elementi di contesto vche possono riguardare gli spazi intercellulari o la capacità di resistenza dei neuroni ai depositi delle proteine. Un versante su cui le ricerche al momento sono poche».

Dello stesso avviso è Paola Barbarino, CEO dell’Alzheimer Disease International: «Dubito ci sarà una pillola miracolosa nei prossimi 20 anni che curi tutti i tipi di malattia che portano alla demenza in un colpo solo. La ricerca sta facendo tanto in aree come la riduzione del rischio. Ad esempio, più del 40 per cento dei casi potrebbe non succedere se si tenessero presenti 14 fattori di rischio».

I farmaci sono pochi e controversi. Il ruolo più importante lo ha la prevenzione

Al momento i farmaci utilizzati in Italia sono quattro, molto vecchi e agiscono solo quando la malattia è già in corso, senza prevenire o ritardare l’avanzamento dei sintomi. Altri nuovi farmaci, approvati da Fda ma non da Ema, hanno scatenato pareri contrastanti a causa di effetti collaterali importanti e inoltre sarebbero somministrabili solo in fasi molto precoci della malattia. Il tempismo della diagnosi diventa così fondamentale perché definisce se una persona è idonea a ricevere un determinato farmaco. Peccato che «secondo i dati di Alzheimer Disease International la diagnosi sia assente nel 70 per cento  dei casi mondiali», dice Barbarino.

Il ruolo più importante lo hanno la prevenzione e le terapie non farmacologiche. «Alcuni interventi di tipo psico sociale hanno un’efficacia che è molto simile a quella dei farmaci e con meno effetti collaterali», conclude il dott. Guaita.

«Questa malattia è stata ignorata per decenni” prosegue Barbarino, «e in questo momento storico c’è una presa di coscienza da parte dei governi, che devono focalizzarsi su fattori di rischio su cui solo loro possono intervenire, come l’educazione o l’inquinamento».

L’Alzheimer è un tema politico. Ma il fondo demenze italiano ha dieci anni

Perché l’Alzheimer è anche un tema politico. E sono i governi a dover aiutare le associazioni sui territori, ad esempio mettendo in piedi un piano demenze.

In Italia un piano demenze c’è dal 2014, con l’obiettivo di «fornire indicazioni strategiche per la promozione e il miglioramento di interventi assistenziali nel settore». Ormai ha dieci anni e necessita di un aggiornamento e riscrittura. Le associazioni chiedono che venga inserito in modo strutturale nel bilancio dello stato affinché tutti gli interventi previsti possano essere periodicamente finanziati.

«L’unico finanziamento pubblico a livello nazionale oggi è il fondo demenze, che esiste dal 2021 spiega Mario Possenti, Segretario Federazione Alzheimer Italia. È dedicato a una serie di progetti, chiamati progetti azione, portati avanti dalle singole regioni secondo cinque linee di indirizzo approvate dal tavolo permanente sulle demenze. Si cerca di capire se una determinata azione è efficace e se possa quindi essere inserita stabilmente nel sistema sanitario regionale per poi essere condivisa anche con altre regioni».

Il fondo demenze finanzia questi progetti per tre anni, permettendone lo sviluppo per quel lasso di tempo, ma senza che possano entrare a far parte del sistema sanitario regionale. Alla fine del 2023, il fondo per le demenze è stato rifinanziato per un totale di 34 milioni e 900mila euro suddivisi in tre anni: 4,9 milioni per il 2024, 15 milioni per il 2025 e 15 milioni per il 2026. Di questi - spiega Possenti - 1 milione e mezzo sarà destinato all’istituto superiore di sanità per portare avanti alcune iniziative, tra cui proprio il rinnovo del piano demenze». Il problema, sottolinea il Segretario, è che procedendo di triennio in triennio non c’è mai la certezza che un determinato progetto venga prorogato.

«Faccio un esempio: con i fondi dello scorso triennio alcune regioni hanno scelto di assumere psicologi all’interno del Centri per i Disturbi Cognitivi e le Demenze (CDCD) così da ottimizzare e accorciare i tempi per le visite. Finiti i fondi questi professionisti sono stati mandati a casa, senza entrare a far parte del sistema sanitario. Con l’arrivo dei nuovi fondi saranno riassunte queste figure, quindi questi progetti potranno proseguire. Ma il problema è la precarietà delle attività, perché non sappiamo se e come le regioni porteranno avanti i progetti, non c’è garanzia che alla fine del triennio non si riparta da zero».

Le associazioni chiedono al governo obiettivi concreti 

Le associazioni chiedono che il fondo e il piano demenze entrino a far parte del bilancio dello Stato, siano quindi resi strutturali e non soltanto elargizioni una tantum per portare avanti i progetti, e che il tavolo permanente sulle demenze, che oggi fa capo al Ministero della Salute, diventi un tavolo governativo sotto la presidenza del Consiglio dei Ministri. «Nei prossimi mesi dovrebbe essere redatto il nuovo piano demenze che si spera porrà obiettivi più concreti possibili per supportare e salvaguardare 1 milione e 400 mila persone con demenza in Italia e le loro famiglie, per un totale di circa 6 milioni di persone».

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