Dal luglio 2000 la legge sul Giorno della memoria invita gli italiani a ricordare, ogni 27 gennaio, la Shoah e le «leggi razziali» (che però gli analisti denominano «razziste» o «antiebraiche»), i deportati politici, i militari internati, coloro che si opposero allo sterminio a rischio della vita.

A tale fine, «sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado», «affinché simili eventi non possano mai più accadere». Questo è il succo della legge.

La ricorrenza è stata apprezzata e si è radicata, costruendosi uno spazio autonomo rispetto alle feste civili nazionali e marcando una vitalità diffusa, superiore a quella di molti “giorni memoriali” successivamente istituiti.

Tra le ricorrenze preesistenti, palesa una maggiore sofferenza la festa nazionale della Liberazione (25 aprile), che peraltro omaggia proprio chi morì per estirpare i responsabili di quelle persecuzioni e violenze.

Purtroppo quel giorno non ha il sostegno di una legge articolata, come quella sul 27 gennaio; inoltre oggi vi sono ancora troppi italiani che non sopportano quella lotta di estirpazione e la sua festa.

Tra le ricorrenze memoriali successive, soffre in particolare il “Giorno del ricordo in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale” (10 febbraio), rimasto vittima della malevolenza di chi scrisse il testo di legge: il 10 febbraio 1947 l’Italia firmò il trattato di pace definitivo con gli Alleati (contenente tra l’altro la sistemazione dei confini ove convergono le penisole italiana e balcanica) e però questa legge memoriale non contiene una condanna delle cause che portarono l’Italia a quella guerra che portò a quella pace: fascismo, dittatura, bellicismo, imperialismo.

La lacuna

Andrea Alfano/LaPresse

La legge del 27 gennaio ha una singolare lacuna: il suo titolo e il suo testo menzionano i «campi nazisti», ma non contengono i vocaboli fascismo, fascisti. Peraltro il suo testo condanna esplicitamente «la persecuzione italiana dei cittadini ebrei». Quindi da un lato è silenziosa sulle responsabilità specifiche del regime di Benito Mussolini, dall’altro addita una responsabilità del paese in generale, concretatasi ad esempio nella sostanziale assenza di dimissioni polemiche o proteste pubbliche contro l’introduzione dell’antisemitismo di stato nel 1938.

Su un altro piano, va rilevato che la presenza di un riferimento territoriale o nazionale, in luogo di quello storico politico, chiama in causa anche i tempi attuali, ovvero la persistenza odierna di pregiudizi o ostilità verso gli ebrei.

Per rimediare alla lacuna, occorre richiamare innanzitutto il notevole apporto elaborativo e attuativo alla persecuzione dato in prima persona dal dittatore, e poi passare in rassegna l’impegno di autorità e propagandisti, locali e centrali.

Le vittime

Il 27 gennaio si ricordano ufficialmente i tre principali gruppi di vittime, a partire dall’8 settembre 1943: gli ebrei, i deportati politici, gli internati militari, ciascuno con la sua specificità.

Per i primi, non vengono precisati i dati del trasporto e della reclusione, poiché erano destinati all’uccisione tramite gas venefico nel centro di assassinio di massa di Auschwitz Birkenau. Talora un piccolo numero degli arrivati veniva immatricolato (subendo il tatuaggio del relativo numero) e immesso nel campo, perché i carcerieri decisero che, nonostante la loro infima “razza”, potevano essere in qualche modo utili all’impero nazista, per qualche tempo.

Assieme a loro, il giorno della memoria ricorda la totalità degli ebrei di tutte le nazionalità, o apolidi, uccisi ovunque da tedeschi nazisti, croati ustascia ecc., talora previamente arrestati da italiani fascisti, francesi vichysti, norvegesi collaborazionisti ecc.

Il secondo gruppo commemorato è quello degli uomini e delle donne deportati per motivi di ordine politico (opposizione al nazifascismo) o connesso, e internati in una complessa rete di campi di concentramento. Dachau, Mauthausen e, per le donne, Ravensbrück furono quelli con i maggiori arrivi dall’Italia; nel tempo, vi furono molti spostamenti.

Essi non vennero sottoposti alla “selezione iniziale” riservata agli ebrei sterminandi, ma nei lager subirono egualmente un trattamento durissimo e un elevato tasso di mortalità.

All’interno di questo gruppo vi erano alcune persone appartenenti alle comunità rom e sinti; i dati sino a oggi recuperati riferiscono di una deportazione in piccolo numero, ma tutti gli aspetti del tema sono tuttora sotto indagine (da parte, purtroppo, di pochi storici).

Il terzo gruppo menzionato dalla legge è quello dei militari italiani rastrellati nei teatri di guerra e internati in una miriade di campi tedeschi. Anch’essi subirono prigionia, lavoro coatto e morti per maltrattamento (diverso ovviamente fu il trattamento di coloro che chiesero di tornare a combattere nelle formazioni dell’Asse).

La legge include infine i soccorritori, i salvatori di vite. È interessante rilevare che essa invita esplicitamente a ricordare la persecuzione, e tuttavia non fa menzione diretta dei persecutori. Si tratta di un silenzio poco opportuno, perché i “giusti” furono proprio la risposta all’opposta esistenza degli “ingiusti”. Il primo di questi ultimi fu indubitabilmente Mussolini, al quale oggi vari consiglieri comunali fascisti e antisemiti insistono a confermare la cittadinanza onoraria delle loro città.

L’impostazione della legge

La scelta del 27 gennaio quale data per la ricorrenza del giorno della memoria fu sostenuta dalla presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane Tullia Zevi, in virtù del fatto che ad Auschwitz erano stati destinati anche deportati politici italiani, sia con convogli diretti da Trieste, sia dopo una permanenza in altri lager. Quel giorno quindi ben si adattava all’impostazione ampia della legge, da lei voluta.

Va poi tenuto in considerazione che il giorno della liberazione di Auschwitz, nel 1945, è presente verso la fine di Se questo è un uomo e l’inizio de La tregua, libri già all’epoca notissimi. Si trattò insomma di una scelta maturata in Italia, anche se proprio a cavallo tra i due secoli si era sviluppata una tendenza internazionale a far convergere in tale data la memorizzazione ufficiale della Shoah.

Riguardo a tutto ciò, va comunque tenuto presente che solo un sesto degli ebrei europei sterminati nella Shoah venne ucciso nel campo di Auschwitz Birkenau.

In termini sintetici, la legge del 2000 concerne l’insieme della Shoah, la persecuzione antiebraica avvenuta in Italia, tutti i perseguitati italiani, i soccorritori. Né essa, né altre leggi della nostra Repubblica hanno per oggetto la violenza omicida italiana fascista nelle terre colonizzate o occupate e le sue vittime. È un’assenza dolorosa, anche perché paesi democratici come la Germania hanno fatto una scelta opposta.

Tutti gli anni, in occasione del 27 gennaio si registra un pullulare di iniziative, Covid permettendo. Ve ne sono di retoriche e di responsabili. Le prime infastidiscono, ma sono in parte inevitabili. E comunque non serve dedicare tempo a commentarle. Le seconde sono un bel frutto di questo complesso testo normativo. Sono portate avanti perlopiù nelle scuole, nelle università, da gruppi locali, da comitati spontanei. E sono quelle più feconde.

In genere vanno al di là del costrutto “memoria – mai più” e indagano con molteplici modalità ciò che accadde, ossia sviluppano un percorso di approccio, approfondimento, ricerca, studio, apprendimento, elaborazione, conoscenza, consapevolezza. Tappe tutte indispensabili, al fine di non erigere un edificio memoriale di sabbia a bordo mare. In fondo, questo è ciò che chiede la legge 211/2000 e che ne costituisce la parte più apprezzata: «narrazione e riflessione». Anche relativamente alla legge stessa.


Michele Sarfatti è autore di Il cielo sereno e l’ombra della Shoah. Otto stereotipi sulla persecuzione antiebraica nell’Italia fascista, edito da Viella

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