Nella bolla del Giubileo Francesco parla della «perdita del desiderio di trasmettere la vita». Manca invece qualsiasi richiesta di perdono per le colpe della chiesa
Giovedì 9 maggio, ai vespri della festa dell’Ascensione (in Italia celebrata domenica), è stata pubblicata la bolla d’indizione del Giubileo, atto solenne con cui viene proclamato un «anno santo», che da quello del 1500 ha una cadenza ordinaria venticinquennale. Ma il documento papale non è una sorpresa: da mesi anche i romani più lontani dalla chiesa, ormai la stragrande maggioranza, a causa dei cantieri aperti – come sempre programmati e iniziati in ritardo – e del traffico più caotico del solito si erano accorti del Giubileo, che incombe sul 2025.
Le radici lontane di questo istituto, fondato sul riposo sabbatico della terra e sulla remissione dei debiti, sono nella Bibbia ebraica. Ma a celebrare il primo giubileo romano nell’anno 1300 fu Bonifacio VIII, uno dei papi detestati da Dante, che pure vi partecipò. Benedetto Caetani seppe così genialmente rispondere all’ansia popolare che chiedeva un’indulgenza per cancellare i peccati, sull’onda di una tradizione iniziata da Francesco d’Assisi e ripresa da Celestino V, autori di «perdonanze» in circostanze particolari.
Nel 1500 un pontefice altrettanto controverso e intelligente come Alessandro VI (Rodrigo Borgia) fissò il rituale della porta santa nella basilica vaticana, che resta il più suggestivo ed è tuttora centrale. Per almeno tre secoli nelle cadenze giubilari fiumi di denaro hanno inondato la chiesa di Roma, insieme ad aspre polemiche per il commercio delle indulgenze. In questo modo diversi papi hanno però potuto finanziare capolavori unici e la trasformazione urbanistica della città, in un intrecciarsi di simboli spirituali e di potere terreno.
«Ci siamo domandati se una simile tradizione meriti d’essere mantenuta nel tempo nostro, tanto diverso dai tempi passati, e tanto condizionato, da un lato, dallo stile religioso impresso dal recente concilio alla vita ecclesiale, e, dall’altro, dal disinteresse pratico di tanta parte del moderno verso espressioni rituali d’altri secoli». A porsi questa domanda nel 1973 era Paolo VI, che rispondeva di sì: perché «bisogna rifare l’uomo dal di dentro». E il suo anno santo – un successo inatteso dopo le lacerazioni successive al Vaticano II e consolante per il papa che invecchiava – riuscì, all’insegna della riconciliazione.
Diversa è stata la chiave, nella prospettiva visionaria dell’entrata nel «terzo millennio» cristiano, del grande Giubileo del 2000 voluto da Giovanni Paolo II. Un anno santo che è ricordato per una clamorosa novità, non compresa da molti: la richiesta di perdono per i peccati commessi nei secoli da membri della chiesa.
Filo conduttore del prossimo Giubileo è la speranza, che viene evocata dalla bolla d’indizione con parole tradizionali e oggi quasi stranianti. Perché è fondata – di fronte alla morte e al giudizio di Dio – sulla fede nella vita eterna, cioè su una felicità non effimera, grazie proprio all’indulgenza, che fa scoprire «la pienezza del perdono».
Tra le tragedie e i drammi contrari alla speranza colpisce nel testo papale la constatazione della «perdita del desiderio di trasmettere la vita», con un conseguente «preoccupante calo della natalità». Manca invece nel documento qualsiasi richiesta di perdono per le colpe di membri della chiesa, in un tempo che pure è oscurato dal devastante scandalo degli abusi. E soprattutto resta aperta la domanda se i cristiani, richiamati alle realtà radicali della morte e del giudizio futuro – e dunque del senso della vita – saranno capaci di parlare alle donne e agli uomini del nostro tempo.
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