- Il ministro dell’Istruzione è stato spesso attaccato nelle ultime settimane per le sue lettere agli studenti: sulla Prima guerra mondiale e sul comunismo.
- Nel contempo, si è dimenticato qualsiasi anniversario col regime fascista. A chi lo accusa di fare un uso politico e semplificatorio della storia, Valditara risponde con la sua storia personale antifascista: quella del figlio di un partigiano che ha combattuto il nazifascismo.
- Il ministro dell’educazione ha usato più volte il padre partigiano ed antifascista per difendersi dalle accuse di fare un uso politico della storia, ma sulla storia della sua famiglia non ha raccontato tutto
Fresco di insediamento, il ministro dell’istruzione e del merito Giuseppe Valditara si è fatto notare da subito con le sue dichiarazioni sulla storia: il 4 novembre ha scritto una lettera ufficiale agli studenti sull’armistizio del 1918. «La Grande Guerra fu una tragedia immane e nella celebrazione odierna bisogna rifuggire qualunque esaltazione bellicista – scrive il ministro – Dobbiamo tuttavia onorare quei ragazzi, quegli italiani, che in nome di un ideale alto e nobile (l’unità di un popolo, la conclusione del Risorgimento) hanno sacrificato la propria vita».
Il 9 novembre, nella ricorrenza della caduta del Muro di Berlino nel 1989, ha proposto agli studenti un’altra lettera ufficiale con cui faceva i conti con l’intero Novecento: «Gli storici hanno molto studiato il comunismo e continueranno a studiarlo, cercando di restituire con sempre maggiore precisione tutta la straordinaria complessità delle sue vicende. Ma da un punto di vista civile e culturale il 9 novembre resterà una ricorrenza di primaria importanza per l’Europa: il momento in cui finisce un tragico equivoco nel cui nome, per decenni, il continente è stato diviso e la sua metà orientale soffocata dal dispotismo».
Con un ma e un tuttavia Valditara ha pensato di liquidare il problematico rapporto tra ricerca storica e memoria civile, usando il peso della sua voce istituzionale per forzare in modo strumentale il dibattito storiografico, culturale e didattico.
Alle reazioni di chi (da molti storici all’Anpi) ne ha sottolineato il rischio propagandistico o quanto meno l’irritualità, Giuseppe Valditara ha risposto piccato, difendendo il suo stile e tirando in ballo per due volte suo padre: «Non vedo il problema, sono figlio di un partigiano della Brigata Garibaldi, non accetto lezioni da chi non ha mai rischiato la vita per combattere il nazismo».
Ma una lezione di storia gli arriva proprio dalla memoria personale. Domani ha scoperto, tramite interviste e la consulenza di diversi storici, che anche la sua vicenda familiare mostra l’irriducibile complessità della storia, che proprio i suoi critici lo accusano di semplificare. Suo padre infatti non è mai stato ufficialmente un partigiano.
Una storia familiare
Il padre del ministro, Luigi Valditara, oggi ha 98 anni. Nato in provincia di Novara nel 1924, all’età di 19 anni è uno delle migliaia di ragazzi arruolati nel nuovo esercito della Repubblica di Salò, messa in piedi da Mussolini dopo l’8 settembre del 1943.
Chiamati alle armi per difendere un regime sconfitto e screditato, migliaia di giovani fuggiranno in montagna per unirsi ai partigiani o cercheranno di nascondersi dalle forze della milizia fascista. Molti pagheranno con la vita o con la prigionia la loro scelta.
Luigi Valditara, invece, risponde alla chiamata e finisce nella divisione Littorio. Non si tratta di una formazione di fanatici, come le milizie di partito o la X Mas, ma di soldati di leva che i tedeschi guardano con sospetto e a volte trattano più come prigionieri che come alleati.
Mussolini li invia in Germania per l’addestramento senza curarsi della loro sorte. «Quello di Salò non era un governo, era un governo fantoccio», , ricordando il viaggio «dentro carri bestiame con le porte chiuse con fil di ferro».
Quando torna in Italia, la divisione viene mandata al confine con la Francia. Valditara non scappa né si rifiuta di combattere. Per mesi partecipa agli scontri intorno al Col di Tenda contro gli alleati e insieme ai nazisti e fascisti.
La divisione si scioglierà il 27 aprile del 1945, nei giorni del collasso della Rsi. E qui la storia, lo sappiamo, prende un’altra piega. Due giorni prima, il 25, il Comitato di liberazione nazionale alta Italia proclama l’insurrezione generale: l’unità di Valditara passa con la 104esima brigata Garibaldi, una formazione partigiana di ispirazione comunista. La commissione per l’accertamento delle qualifiche partigiane scrive proprio così: data di arruolamento nelle formazioni partigiane 25 aprile 1945.
Anche se tecnicamente Luigi Valditara è uno di quei “ragazzi di Salò” passati con la Resistenza quando Mussolini era già in fuga che la destra neo e postfascista ha irriso per anni, i documenti di archivio trovati da Luigi Garelli, direttore dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo, confermano che Valditara ha partecipato ad alcuni piccoli scontri contro i tedeschi in ritirata a Savigliano e vicino Torino. Una ritirata in cui, ricorda lo storico Bruno Maida, autore di Prigionieri della memoria proprio sulla storia di quel fronte: «Ogni paese piemontese attraversato diventa il luogo di una strage nazista e fascista».
Valditara racconta che le poche armi e munizioni paracadutate dagli aerei britannici potevano fare poco oltre che piccole azioni di disturbo. Episodi che non saranno sufficiente a soddisfare i rigidi requisiti per essere riconosciuto ufficialmente come partigiano. Nei documenti dell’epoca, Valditara viene qualificato come «non partigiano».
Nonostante accetti di ricordare la sua storia, Luigi Valditara dice di non parlare volentieri di queste vicende. Non vuole rispondere alla domanda se fosse comunista, come la maggior parte dei componenti delle brigate Garibaldi. «Basta, basta – dice – Si vive in un’altra epoca, non parliamone più di queste cose, sono superate».
La memoria oggi
Nelle file dell’esercito della Rsi dal 29 aprile 1944 fino al 25 aprile 1945, combattente in una delle brigate Garibaldi dal 25 aprile 1945: la sua non è una storia semplice da raccontare senza contesto. «La maggior parte delle persone, soprattutto dei giovani nati e cresciuti durante il ventennio, in quei venti mesi ha oscillato tra atteggiamenti complessi e anche contraddittori», dice lo storico Carlo Greppi, autore dei saggi Uomini in grigio, proprio su questo tema, e Il buon tedesco, che racconta delle migliaia di tedeschi e austriaci che si unirono ai partigiani. «Non furono molti quelli che capirono senza esitazioni da che parte stare: se così fosse stato l’Italia si sarebbe liberata in poche settimane. E invece, come ci ha insegnato Italo Calvino, bastava “un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima” per trovarsi dall’altra parte».
Quella di Luigi Valditara è una vicenda simile a quella di migliaia di altri e mostra chiaramente i pericoli di usare la storia in modo semplificatorio e apologetico, tanto più se si è ministri dell’istruzione. I soldati di Salò non erano tutti convinti difensori dell’onore dell’Italia, come vorrebbe la propaganda dei partiti di destra a cui il ministro è stato a lungo vicino. Erano spesso ragazzi mandati in Germania in carri bestiame e brutalizzati dai loro alleati. Essere un partigiano non significava sempre essere un eroe, né un comunista convinto, né un cinico opportunista. A volte voleva dire essere trasportati dalla corrente in balia di eventi fuori dal proprio controllo.
Come nella sua lettera agli studenti, in cui utilizza la critica al comunismo per stroncare ogni utopia e aspirazione al cambiamento radicale, come nei suoi libri sull’Impero romano, in cui ha scelto la più politica e controversa delle teorie sulla sua caduta, quella sulla responsabilità dei barbari “immigrati”, per trarre paralleli sul presente, anche nel raccontare la sua storia familiare Giuseppe Valditara ha fatto di nuovo un uso semplificato e disinvolto della storia. E su questo, parafrasando le sue parole rivolte agli studenti, vi invitiamo a riflettere e a discutere.
La replica del ministro
Mio padre è stato forzatamente arruolato a vent’anni in una divisione di artiglieria corazzata dell’esercito italiano con bando a cui non era possibile sottrarsi pena conseguenze dirette sulla vita stessa dei suoi genitori. Inviato sul fronte francese, si è unito alla brigata Garibaldi nell’inverno del 1945 [dall’aprile 1945, secondo i documenti e testimonianze in nostro possesso, ndr] in nome della lotta di liberazione contro la tirannia nazifascista, come dimostrano foto e fazzoletto commemorativo. Fare polemiche contro chi ha rischiato la vita per combattere il nazismo sarebbe una inaccettabile strumentalizzazione.
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