Ho visto migliaia di occhi cercare qualcosa.

In questi lunghi due mesi di presentazioni di Berlinguer. La grande ambizione in tutta Italia ho provato a guardare con attenzione gli occhi di chi riempiva le sale, rimanendo incollati alle sedie per molti minuti dopo la proiezione. Li ho guardati per più di 50 giorni di seguito in oltre 70 sale diverse. E ora che sono tornato a casa provo a capire cosa ho visto in quegli occhi.

C’erano degli occhi lucidi e degli occhi tristi, di chi ricordava e di chi sapeva di aver perso qualcosa. Occhi di chi negli anni Settanta aveva 20, 30 o 40 anni. Ma non erano la maggioranza. Molti di più erano quelli che avevano scoperto qualcosa, occhi stupiti, quasi increduli. Occhi più giovani, ma non solo, di tutte le età, seduti uno affianco agli altri, e uniti da un sentire comune che attraversava la sala.

Cosa avevano scoperto? Cosa non si aspettavano? Le parole e le azioni di Enrico Berlinguer? La forza popolare del Pci? Le tensioni internazionali che tenevano sotto scacco l’Italia e la sua zoppa democrazia?

Tutte cose importanti, ma non sufficienti a creare la tensione emotiva che ho visto e sentito in quegli occhi.

Doppio sguardo

Guardavano con intensità davanti a loro e contemporaneamente dentro loro, un doppia direzione di sguardo e di pensiero che racconta la condizione di chi non è stupito da qualcosa di esterno, ma da qualcosa che non ricordava di avere dentro. Come quando guardando una nuvola o il vento tra gli alberi scopri di sentirti fragile e di aver voglia di volare.

Sono la nuvola e il vento a liberarti, ma è ciò che scopri di aver dentro che ti fa vibrare e lo fa ancora di più perché nel momento esatto in cui lo scopri capisci che non avevi avuto il coraggio o la possibilità di scoprirlo. Ti intenerisce e ti scalda, ti provoca malinconia e rabbia la tua assuefazione all’oblio di quell’emozione che invece ora, nell’incontro irrompente con la nuvola e il vento, non è più contenibile e ti convoca in tutta la tua presenza e responsabilità.

È un incontro difficile che sa di amaro e di dolce, che ti consegna all’intensità della relazione con ciò che non puoi nascondere. Capisci che avevi bisogno di quell’emozione, ma capisci anche di averla saputa o dovuta negare per molto tempo e avvolgendoti intorno a essa allontani ingenuo e sognante la paura di ricominciare a negarla.

È una condizione di profonda e potente fragilità. Occhi fragili e potenti. Ecco come erano.

Specchiarsi

Ma cos’era esattamente, mi chiedo ora, quella emozione che riempiva in quel modo quelle migliaia di occhi.

Deve essere qualcosa che manca ma che unisce, che sai di non avere, ma anche di avere. E che potresti provare a esprimere di nuovo, ma in forme nuove, nel nostro tempo.

Qualcosa di suggerito dalla storia, dalle parole, dalle immagini del film. Qualcosa che non è generato dal film, ma che esiste in sé ed emerge usando il film come occasione. Qualcosa in cui specchiarsi sapendosi uguali e diversi. Altri occhi.

Questo, ora ricordo, mi hanno sempre detto tutti e tutte in tante sale d’Italia: gli occhi degli uomini e delle donne protagonisti del film e soprattutto degli archivi inseriti nel film, la loro felicità, la loro emozione, questo ci ha fatto male e bene.

Per agire in questo modo devono essere occhi in cui ci riconosciamo, non solo occhi che osserviamo. Devono essere occhi in qualche modo simili ai nostri, occhi che nella differenza ci assomigliano.

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Sognare

Cosa ci unisce? Cosa scopriamo di avere in comune con persone che nello stesso tempo sentiamo anche diverse?

Sappiamo di poter provare qualcosa di uguale a loro e scoprendo di non provarlo capiamo in realtà che vorremmo provarlo.

Impossibile e possibile nello stesso tempo.

Cos’è che essendo impossibile è anche possibile, cos’è che non essendo vero è anche profondamente vero? Cos’è che nella sua differenza, a volte distanza dalla nostra normalità, è in realtà capace di dirci cosa siamo?

Il sogno. È l’attività più incontenibile che abbiamo, quella da cui non sappiamo separarci, perché non la controlliamo pur generandola. Ciò che ci unisce a tutti gli altri esseri umani, ciò che ci rende profondamente uguali nelle nostre immense differenze. Ciò che fingiamo di non sapere di avere, ma che sappiamo di volere. Ciò che desideriamo.

Il desiderio del sogno. Una condizione naturale che diventa prima sociale e poi politica quando può essere anche condivisa, quando esiste un’organizzazione e in essa uomini e donne e con loro un segretario capaci di dirsi e di dire pubblicamente quel sogno.

Il desiderio di un sogno comune. Questo cercavano quegli occhi: avevano scoperto di averlo dentro e che aver fatto finta di poterne fare a meno era un’illusione.

Un bisogno umano

La storia del Pci di quegli anni, la sua comunità, i suoi volti, i suoi occhi mettono a nudo questa condizione umana e lo fanno anche se non ne hai fatto parte o se non eri d’accordo. Lo dice anche Enrico Berlinguer (Elio Germano) nel film quando spiega l’enorme partecipazione alle Feste de L’Unità: sai di aver bisogno di «vivere rapporti di tipo nuovo, fondati sulla solidarietà e di questo la gente ha sete, tanto quanto ha bisogno di soddisfare le sue esigenze di benessere materiale».

La solidarietà cresce proprio lì dove si fonda su un sogno comune e sul coraggio e la capacità di dirlo pubblicamente.

Questo mi hanno spiegato soprattutto i più giovani spettatori: abbiamo scoperto, non grazie al film, ma insieme al film, ciò che ci manca, ovvero che la politica può avere a che fare con un sogno comune.

Senza quel sogno nessuna organizzazione è in grado di costruire comunità, di diventare di massa (se non usando la forza, ovviamente).

La comunità oggi

Nel mondo di oggi c’è un sogno comune che sta costruendo comunità?

L’unico apparentemente disponibile è quello di proteggersi dall’altro chiudendosi dentro alla propria identità etnica e religiosa, dentro i confini della propria Patria.

È un sogno solo apparentemente comune, perché di fatto si fonda invece sulla separazione e di conseguenza sulla discriminazione. È un sogno che divide e che fingendo di difendere annulla l’individuo dentro a una identità astratta (la Patria) che deve diventare sempre più forte e che quindi ha bisogno di un capo autoritario e superpotente a cui cedere il dominio e la ricchezza.

È un sogno che usa l’odio e la guerra e che alimenta le competizioni e le diseguaglianze. Ma nel nostro tempo è l’unico che viene detto e così riesce a coinvolgere una parte rilevante dei popoli.

Possibile e impossibile

Ma per fortuna non tutti e nemmeno la maggioranza assoluta (spesso solo quella relativa). Gli occhi che ho incontrato desiderano, anzi scoprono di desiderare un sogno comune ben diverso.

Un sogno di giustizia condivisa, capace di sradicare le diseguaglianze e le discriminazioni, migliorare l’accesso e la qualità dei beni comuni, contrastare privilegi e violenze, diffondere diritti e dignità; sognano in fondo di avere un’alternativa all’unico sistema economico, quello capitalista, che in 30 anni di dominio ha forse diffuso per alcuni un maggiore benessere materiale, ma ha oggettivamente accresciuto per molti diseguaglianze, sfruttamento, egoismi e guerre.

La scoperta di questo desiderio ho visto negli occhi che ho incontrato nelle sale. Una scoperta che fa male e fa bene nello stesso tempo. Perché dice che vogliamo ciò che non abbiamo, ma dice anche che pur non avendolo lo vogliamo comunque.

Impossibile e possibile nello stesso tempo.

Come un sogno.

Come un sogno che ha bisogno di essere detto, come sapevano dirlo Berlinguer e il suo popolo.

Perché solo se detto e condiviso può unire migliaia di persone, diventare comunità e avere la grande ambizione di cambiare il mondo.

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