Una tentazione sempre più frequente si aggira nel governo Meloni: scaricare sui cittadini i costi dei servizi pubblici che lo stato non vuole più sobbarcarsi. Per scelta oltre che per necessità.

Che si tratti di scuola, con una spinta sempre più a favore degli istituti privati, o che si parli di mettersi al riparo dai rischi di calamità naturali, con l’obbligatorietà delle polizze assicurative, la destra meloniana ha scelto una linea precisa: chiedere agli italiani di mettere mano al portafogli per avere i servizi base. Una strategia confermata dal piano strutturale di bilancio presentato dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti.

L’ultima frontiera di questo progetto di esternalizzazione dei costi riguarda le pensioni. Da un lato si promette la «pensione facile» di Quota 41, dall’altro l’esecutivo prepara sacrifici e impegni economici personali. Il sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon, ha rivelato – in un’intervista alla Stampa – quale siano le intenzioni dell’esecutivo: «Prevediamo un intervento importante sulla previdenza integrativa per assicurare ai giovani una pensione dignitosa».

Del resto da tempo il neo vicesegretario della Lega parla della necessità di rafforzare il «secondo pilastro» della previdenza, ossia quella integrativa. Insomma, le pensioni saranno molto basse, soprattutto per le nuove generazioni, allora che i giovani si arrangino, investendo soldi loro. Il governo, nella migliore delle ipotesi, potrà favorire qualche agevolazione.

Fardello sulle imprese

L’accelerazione di Durigon sul fronte previdenziale sembra sincronizzata, seppure in maniera casuale, con l’iniziativa sulle assicurazioni contro le calamità naturali. Il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, ha confermato che non ci saranno passi indietro sulla novità che al momento riguarderà le imprese.

La misura, già prevista dall’ultima legge di Bilancio, «entrerà in vigore il primo gennaio 2025 e interesserà tutte le imprese con sede legale o stabile organizzazione in Italia», ha spiegato il Mimit. La polizza dovrà coprire i «danni causati da calamità naturali ed eventi catastrofali», si legge nella nota del ministero.

Un affronto a quella platea di industriali che pure ha accolto Meloni con sonori applausi in più occasioni, come nel recente forum di Cernobbio. «Potrebbe accadere che, nei territori dove ci sono problemi, gli industriali non investano più», ha denunciato il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini invitando a interventi di messa in sicurezza del territorio.

Una prospettiva futuribile. Di sicuro tra qualche mese toccherà alle aziende sottoscrivere polizze per ottenere eventuali rimborsi. Perché, per dirla con le parole del ministro della Protezione civile Nello Musumeci, «lo stato non è un bancomat».

L’ex presidente meloniano della regione Sicilia ha indicato uno scenario ancora più duro: l’assicurazione dei privati sulle calamità naturali. Chi vede inondata la propria casa deve avere una polizza per avere i rimborsi, senza chiedere nulla allo stato. Sul punto la destra è divisa, ma qualcosa si muove.

La privatizzazione, o comunque lo spostamento dei costi verso i cittadini, tocca poi due macro-categorie: la sanità e la scuola. Le persone sono costrette sempre più spesso a rivolgersi alle strutture private per ricevere diagnosi o cure tempestive. Nel 2023, secondo i dati diffusi dall’Associazione nazionale imprese assicuratrici (Ania), è cresciuta del 10,9 per cento la spesa per la sottoscrizione di polizze per la salute. Certo, il trend nel settore sanitario è in atto da tempo. Ma dal governo non c’è alcuna particolare attenzione, anzi.

Abbandono scolastico

Al netto della grancassa propagandistica di Meloni, l’investimento sanitario è in calo. Nell’ultimo Def è stato messo nero su bianco che la spesa per la sanità è al 6,4 per cento rispetto al Pil per il 2024 con una diminuzione graduale fino al 6,2 per cento del 2027. Il sostegno al Sistema sanitario nazionale risulta dunque inadeguato. Un implicito (nemmeno tanto) favore al ricorso verso i privati.

Ci sono poi casi diretti di mano tesa alla sanità privata. Nel decreto sulle liste d’attesa, approvato nella scorsa estate, è stato previsto un meccanismo per cui laddove non riesce a esserci la copertura del pubblico, ecco che bisogno andare presso le strutture private accreditate.

E, last but not least, c’è tutto il capitolo della scuola con la grande spinta alle paritarie. In questo caso non c’è un aggravio di esborso diretto delle famiglie, ma è una partita di giro: le risorse pubbliche vanno agli istituti privati. Il progetto non è un mistero. «Le scuole paritarie sono pubbliche», ha detto il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara. Il ragionamento non è puramente teorico, di mezzo ci sono gli stanziamenti economici dirottati dalle scuole pubbliche. «Per la prima volta i fondi Pnrr e Pon verranno distribuiti anche alle paritarie», ha rivendicato Valditara. La spesa ammonta in totale a 150 milioni di euro.

Il disegno avanza. Il governo Meloni ha già previsto la riforma delle filiere di formazione tecnico-professionali. Consulenti esterni potranno tenere corsi e lezioni liberamente. «In questo modo lo stato pagherà quella formazione aziendale che i neoassunti un tempo ricevevano dalle imprese insieme ad un contratto a tempo indeterminato. La scuola perde la vocazione a occuparsi soprattutto della crescita umana e civile dello studente», dice Elisabetta Piccolotti, deputata di Alleanza verdi sinistra.

In fondo è dalla scuola che parte l’educazione. E il governo Meloni vuole insegnare fin dall’inizio che bisogna pagare in prima persona per i servizi. Compresi quelli, sulla carta, pubblici.

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