A studiare un po’ si scopre che la narrazione guerrafreddista corrisponde alla realtà quanto le armi di distruzione di massa di Saddam
A cinque anni dall’articolo del vicepresidente americano Mike Pence apparso sul Wall street Journal con il titolo “La nuova guerra fredda”, si può dire che quella formula sia stata un buon successo di comunicazione, anche a giudicare dal suo radicamento nei media italiani. Oggi i seguaci della profezia preferiscono la dizione più prudente “democrazie versus autarchie”, ma la sostanza è identica: l’occidente contro l’anti-occidente.
Stati uniti e suoi alleati contro la Russia-Cina e relativi satelliti, di questo si parla. Complice Putin e le reazioni muscolari di Pechino, tutto quadra. Unico problema: a studiare un po’ si scopre che la narrazione guerrafreddista corrisponde alla realtà quanto le armi di distruzione di massa di Saddam.
E se a quelle bastò di essere vere sui media di Murdoch per motivare l’invasione dell’Iraq, oggi, in un mondo più frammentato, non saranno certo nuovi giochi di parole a costringere il caos dentro l’ennesimo schema binario Noi/Loro. Come infatti a questo punto è evidente, non c’è un blocco occidentale e neppure un blocco antioccidentale, mancando all’uno e all’altro un’impalcatura ideologica.
Per ovviare gli americani hanno provato a ricavare un discrimine dall’opposizione democrazia-autarchia, ma è un’evidente forzatura. Dei Brics, il raggruppamento considerato strumento anti-occidentale perché tra i fondatori figurano Russia e Cina, fanno parte anche democrazie come Brasile, India, Sud Africa, e altre se ne stanno per aggiungere.
L’India è da alcuni anni una democrazia sgangherata, un ex stato di diritto liberale dove l’estrema destra hindu organizza pogrom rurali, la Bbc non può trasmettere un documentario sul massacro di duemila musulmani nel Gujarat perché chiama in causa il premier Modi, gli abitanti del Kashmir subiscono quel che non subiscono neppure gli Uigur cinesi (la cui situazione è un po’ migliorata, racconta lo Spiegel).
Ma questi misfatti gli occidentali li hanno condonati, quando hanno cercato di attrarre Dehli dalla loro parte. Washington ha ottenuto un accordo di cooperazione militare, ma l’India resta il maggior cliente del petrolio di Putin e tra i capofila dei Brics.
Nella nuova anarchia internazionale questi prossenetismi saranno frequenti. A orientare attrazioni, avversioni, doppie lealtà, non saranno somiglianze tra sistemi politici (in cosa sono tra loro simili i Brics attuali e futuri, Brasile e Iran, Cina e Argentina?) ma interessi duri, concreti, adattabili alle circostanze. Già ora la linea di demarcazione che dovrebbe separare stati di diritto liberali e sistemi ibridi, le “democrature”, può essere spostata secondo le convenienze. I profili ideologici appaiono laterali; le motivazioni ideali secondarie: resteranno utili al mascheramento, ma non godranno del credito goduto in passato.
Quando Biden offre agli elettori americani una finzione epica, la “battaglia tra autarchie e democrazie”, i primi a non credergli sono i più importanti tra i suoi alleati europei. Secondo il South China Morning Post, nella Ue i diffidenti (identificati in Francia, Germania, Olanda e, oibò, Italia) concordano con Washington sulla necessità del derisking, il ridurre la dipendenza dalla tecnologia cinese se impiegata nei settori inerenti la sicurezza nazionale (innanzitutto semiconduttori, terre rare, quantum energy) ma temono che questo diventi pretesto per una offensiva commerciale funzionale agli interessi americani. Tedeschi e francesi non desiderano infilarsi in attriti militari Nato-Cina su Taiwan, l’isola di cui agli americani importerebbe assai meno se non fosse il più grande produttore al mondo di semiconduttori.
E guardano con irritazione allo zelo guerrafreddista di europei orientali e nordici: a Bruxelles un diplomatico anonimo citato dal South China Morning Post lo irride come “gung-go”, termine in origine cinese che nello slang politico americano sta per “entusiamo sventato”. A conti fatti il cosiddetto occidente è più omogeneo dei Brics ma non meno disunito.
Le premesse del disgelo
Lo scontro per la primazia nella tecnologia del futuro, il vero nome della partita, fino a ieri pareva lasciare grandi spazi di manovra ai guerrafreddisti quando d’un tratto è apparsa un’ipotesi non contemplata: forse la “minaccia cinese” è assai meno consistente di quanto si volesse credere. La Cina affronta una deflazione e una possibile recessione. Ha le ali impiombate da parecchi guai: un debito enorme, una disoccupazione giovanile sopra il 20 per cento, il crollo degli investimenti esteri. E soprattutto: il suo travolgente espandersi imperiale nel mondo è più apparente che reale.
La Road and Belt Initiative, fino a ieri considerata il cavallo di Troia col quale Pechino avrebbe condizionato o ricattato un centinaio di paesi, appare adesso un atto di autolesionismo. Secondo Francis Fukuyama per la Cina quella è «la strada per la rovina». Dopo avervi investito in dieci anni un triliardo di dollari, Pechino sta scoprendo che le infrastrutture costruite rendono meno del previsto; i paesi indebitati, non riuscendo a servire il debito, si rivolgono alle istituzioni internazionali espresse dalla finanza occidentale; e la Cina vede sfumare prestiti e influenza.
Peggio: sta rischiando di produrre una crisi finanziaria globale, nella quale i Paesi indebitati finiranno per rappresentarla come un creditore odioso, non diverso dalle ex potenze coloniali. Morale: malgrado alcuni successi (per esempio il porto del Pireo, concede Fukuyama) nel complesso Pechino pagherà cara la propria imprevidenza e mancherà rovinosamente l’obiettivo di dotarsi di quel che più manca alle sue ambizioni internazionali, un soft-power.
Quanto al suo hard-power militare, a ben guardare Pechino non pare il guerriero invincibile che viene descritto dai guerrafreddisti (per la gioia di quell’industria bellica occidentale che conta nel riarmo).
I 30mila marines cinesi e le 12mila forze speciali (contro i 200mila e 70mila americani), l’esiguità della rete di basi militari nel mondo, una flotta superiore a quella americana nel numero delle unità ma non nella tecnologia, tutto questo lascia supporre che oggi Xi non abbia premura di lanciarsi in avventure nei mari cinesi o altrove.
Sicchè vi sarebbero le premesse perché Washington negozi con Pechino almeno l’abrogazione di alcune tra le misure anti Cina decise da Trump. Ma è improbabile che prima delle presidenziali Usa Biden decida un dietrofront: disorienterebbe l’elettorato.
Di sicuro i guerrafreddisti trumpiani non rinunceranno a incoraggiare i tintinnii di spade. Al più aggiorneranno la loro narrazione. Una versione intelligente (Michael Beckley, American Enterprise) ora ammonisce che Stati Uniti e Cina sono e sempre saranno “enduring rivals”, rivali duraturi: «I loro interessi vitali confliggono e sono radicati nei loro rispettivi sistemi politici, geografie ed esperienze storiche».
Se questa alterità fosse così irriducibile, dovremmo abbandonare ogni speranza di risolvere le questioni globali da cui dipende la sorte del pianeta, innanzitutto clima e nucleare, e limitarci a gestire il suicidio collettivo. Più sensata la prospettiva che segnala lo storico Agostino Giovagnoli, autore con Elisa Giunipero del recente Cina, Europa, Stati Uniti: dalla Guerra fredda ad un mondo multipolare.
Una volta accettata la presenza sulla scena internazionale della Cina, per quanto attore certo ingombrante e diverso da loro, gli Usa, e per estensione gli occidentali, potrebbero concordare con Pechino una comune direzione di marcia, nello spirito di quel che fu lo spettacolare avvicinamento sino-americano patrocinato da Kissinger negli anni Settanta. A quel punto non sarebbe impossibile contenere la deriva anarchica del mondo multipolare con una serie di accordi e regole internazionali.
La questione ucraina
E questa è anche la posta del conflitto russo-ucraino. Se fosse riconosciuto a Putin il diritto di acquisire definitivamente i territori che ha occupato, se cioè fosse remunerato l’autore di una guerra di conquista, crollerebbe uno dei pochi pilastri sui cui poggiano da sessant’anni le relazioni internazionali. Ne deriverebbe un poderoso incitamento ad altre guerre di conquista e ad un riarmo generalizzato.
E su quel territorio devastato diventerebbe arduo costruire un sistema globale in qualche modo regolato. Nondimeno anche in Italia avanza il partito trasversale che persegue una “pace” che riconosca a Mosca sovranità sulle regioni conquistate. Anch’esso racconta un immaginario mondo bipolare, in un certo è l’altra faccia del guerrafreddismo.
Rappresenta la guerra come un pugilato bestiale tra due picchiatori, l’uno russo e l’atro americano, colpevoli in egual misura. E sin dall’inizio sembra suggerire a Kiev l’esempio dell’assemblea nazionale francese, che il 10 luglio 1940, con le armate del Reich a Parigi, alla resistenza preferì il collaborazionismo.
Votò i pieni poteri ad un generale, Philippe Petain, gradito a Berlino (a favore quasi tutta la destra e la maggioranza del centro e della sinistra) e si convinse di aver risparmiato alla patria un destino atroce. Due anni dopo la polizia di Petain rastrellava ebrei per conto di Hitler: certe “paci” hanno un prezzo.
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