Per gestire un paese non basta la classe dirigente di un partito che per anni si è mosso intorno al 4 per cento. Se ci fosse ancora bisogno di prove, ecco planare sul dibattito agostano il caso Battistini. Un servizio esclusivo a cui è seguita l’indicazione aziendale di far rientrare la giornalista del Tg1 che ha raccontato l’ingresso in Russia delle truppe ucraine, minacciata di procedimenti penali dal regime russo.

La mancanza di comunicazione da parte di Farnesina e palazzo Chigi - pure al lavoro in quelle ore per tutelare i colleghi nella sede Rai in Russia - ha fatto il resto. La conseguenza: offrire il fianco a chi critica la scelta dei vertici incaricati da Meloni come una genuflessione su indicazione governativa a Mosca.

La necessità di figure strutturate e competenze forti l’ha capita anche Giorgia Meloni quando si è trovata a fare i conti con tutte le posizioni da occupare su cui palazzo Chigi ha l’ultima parola. I posti da presidiare sono tantissimi ma, a differenza di altri partiti, per cui vale la sempiterna massima «più sederi che sedie», soprattutto in periodi in cui il consenso si restringe, Fratelli d’Italia ha esattamente il problema opposto. Anche perché la presidente del Consiglio deve tenere sempre ben presente il valore più importante che orienta il modo di pensare e di agire della destra italiana: la fedeltà.

Meloni è dunque costretta dalla consuetudine della sua area culturale a trovare una collocazione a chi l’ha accompagnata nella traversata del deserto di quando il partito faticava a superare la soglia di sbarramento alle elezioni europee, anche nel caso in cui non sia forse del tutto preparato per il compito che gli viene assegnato. Una serie di promesse da onorare, che si sommano alle trattative con i partner di maggioranza. «Meglio uno fidato che uno che sa fare» è il commento caustico che rimbalza per esempio in Rai, dove le parole di chi conosce bene viale Mazzini per la governance proposta dai meloniani – in larga parte già presente in azienda e quasi mai in ruoli da Cenerentola – non sono mai state tenere.

La fedeltà del settimo piano

La partita del servizio pubblico, un po’ per il fatto che chi ha subito l’occupazione della Rai non è rimasto in silenzio e un po’ perché tanti protagonisti di fede meloniana si sono fatti notare per un atteggiamento più realista del re, è stata la prova plastica di come per chi siede in plancia di comando la fedeltà non possa essere l’unica stella polare. Nel complicato anno passato Meloni ha dovuto assistere a passi falsi oggettivamente evitabili. A cominciare dal discorso da militante del direttore degli Approfondimenti Paolo Corsini dal palco di Atreju, il caso Scurati o ancora lo scivolone di Rainews24, che ha scelto di di prediligere il festival delle Città identitarie di Pomezia, prontamente scaricato dal direttore Paolo Petrecca sulla sua vice di turno quella sera. In alcuni casi Meloni è dovuta intervenire in prima persona, come quando ha pubblicato sul suo profilo Facebook l'intervento dello scrittore sull’omicidio Matteotti, sperando di chiudere così il caso. Neanche per idea: alle polemiche incrociate sono seguite interrogazioni, dichiarazioni e risposte incrociate che hanno addirittura peggiorato la posizione, già difficile, dell’azienda. «Bastava lasciarla andare in onda Serena Bortone con la scaletta originaria» è la valutazione che circolava in quei giorni a destra, forte del non detto che in quel periodo gli ascolti di Che sarà non erano ancora stabili: ma ancora una volta, la voglia dei dirigenti di mostrarsi ligi aveva avuto la meglio sulla capacità di leggere il contesto.

Insomma, i suoi colonnelli in Rai nell’ultimo anno a più riprese si sono messi in difficoltà da soli. E allora, nonostante la fiducia che viene in tanti casi da una militanza giovanile condivisa – «una cosa che va oltre l’amicizia» dicono – Meloni in certi momenti si è chiesta se continuare a salvare da sé stessi Giampaolo Rossi, Corsini, Angelo Mellone e Paolo Petrecca: la risposta, però, nell’universo meloniano è scritta sulla pietra, pacta sunt servanda. La squadra non si cambia, anche se a volte provoca scontento: insomma, Rossi a meno di colpi di scena avrà la sua poltrona da ad, nonostante le suggestioni circolate a più riprese. Troppo passato comune alle spalle, troppe le volte in cui il dirigente meloniano ha preso schiaffi (metaforici) per conto del partito, come quando per una gestione spericolata della presidente dell’elezione dei consiglieri in parlamento ha perso il treno per il cda Rai nel 2021.

I ministri

Stesso discorso per Gennaro Sangiuliano. Da un anno si è dipinto un bersaglio sulla schiena con una lunga serie di gaffe. Serve a poco annunciare un libro sui passi falsi degli altri quando ci si gloria con una certa soddisfazione di aver accompagnato alla porta un social media manager colpevole – a dire del ministro – di un errore in un post, salvo tornare pochi giorni dopo sui propri passi e comunicare che il dipendente è stato ricollocato «perché io non metto per strada un padre di famiglia». Ma Sangiuliano è stato un direttore più che compiacente al timone del Tg2, pronto a calcare i palchi di Atreju quando il partito glielo chiedeva: poco importa che i suoi suggerimenti sulle candidature alle comunali di Firenze e Bari di giugno siano stati dei buchi nell’acqua o che il pupillo del presidente del Senato non riesca a rispondere sul suo eventuale antifascismo se non con una controdomanda al cronista.

Anzi, Sangiuliano viene citato come esempio lodevole di gestione di ministero ed enti satelliti, con occupazione di poltrone ogniqualvolta si aprisse l’occasione. Si è prodigato di assumere al vertice di Ales – la società in house del ministero – Fabio Tagliaferri,, già assessore ai Servizi sociali e alla Fragilità e patron di un’azienda di noleggi auto. Tutto lineare. Così come la creazione di una via d’uscita ad hoc per Carlo Fuortes, che con le sue dimissioni in Rai ha lasciato campo libero ai meloniani, rassicurato però dal governo che si sarebbe trovato il modo di accelerare l’uscita di scena di Stéphane Lissner a Napoli per offrirgli quel posto.

Al contrario di Andrea Abodi. Eppure, sul suo curriculum figurava una militanza nel fronte della gioventù che faceva ben sperare: qualche detrattore sussurra che fosse una carta da giocarsi con le ragazze, soprattutto alla luce dei suoi primi due anni da ministro. Il suo staff è decisamente poco riconducibile a Fratelli d’Italia, eccezion fatta per Mario Pozzi, capo della segreteria tecnica vicinissimo al ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. Il resto è un misto di tecnici e assistenti riconducibili ad altre aree politiche. Una tornata di nomine che non è piaciuta al partito: i Fratelli della vecchia guardia non apprezzano l’autonomia del presunto militante, che spesso non risponde al telefono.

Anche sugli incarichi negli enti paraministeriali si aspetta una reazione più celere da un ministro in quota: un episodio su tutti, la faticosa ricerca di un presidente del cda dell’Istituto del credito sportivo, che i meloniani non vorrebbero vedersi ripetere. Per altro in un momento in cui lo sport – e i soldi che gli girano attorno – sono diventati terra di conquista della maggioranza: alla Lega non dispiacerebbe vedere il suo Luca Zaia alla guida del Coni quando Giovanni Malagò passerà la mano. Che della materia si sia occupato solo marginalmente sembra irrilevante: conta l’occupazione della casella, su cui però FdI promette battaglia. Abodi permettendo.

A ragionare secondo l’assioma della fedeltà è un altro pezzo da novanta del partito, la ministra del Turismo. Le vicende giudiziarie di Daniela Santanchè continuano a preoccupare palazzo Chigi, che però si cautela con l’attesa di un eventuale rinvio a giudizio. Ma intanto la ministra ha fatto uso del suo potere per scegliere un nome di assoluta fiducia per l’Enit, ente paraministeriale su cui Santanchè può dire la sua. Anche nominando una direttrice generale, Elena Nembrini, che non ha esperienza nel settore, ma su cui la ministra può contare.

I parlamentari

Ogni poltrona occupata con il criterio della fedeltà invece che con quello della competenza rischia di riservare brutte sorprese. Ma anche coloro da cui ci aspetterebbe una certa esperienza grazie alle legislature alle spalle spesso e volentieri provocano grattacapi a Meloni e la sua cerchia più ristretta (la sorella Arianna, che ieri secondo giornali di destra e un pezzo di Fdi sarebbe obiettivo di un fantomatico complotto ordito dai magistrati e alcuni giornli, Giovan Battista Fazzolari e Patrizia Scurti).

Basta ripensare a quando Giovanni Donzelli – alla seconda legislatura – raccontava in aula informazioni riservata del Dap, oppure quando il parlamentare Emanuele Pozzolo – alla sua prima legislatura, a onor del vero – a Capodanno rimaneva coinvolto in una sparatoria. Da segnalare anche Federico Mollicone: anche il presidente della commissione Cultura non perde occasione per mostrarsi fin troppo osservante del verbo meloniano, mettendo la premier in difficoltà con le sue strampalate tesi sulla strage di Bologna.

La premier aveva parlato di una strage «che le sentenze attribuiscono a esponenti di organizzazioni neofasciste», Mollicone era arrivato a mettere proprio in discussione tutto l’impianto giudiziario dei processi per chiedere una riapertura dei casi da parte del ministro della Giustizia. Ma la sua unica legislatura di esperienza – o forse la sua carriera nei municipi romani in quota An – gli basta per continuare a essere presidente.

Per non parlare di Andrea Delmastro Delle Vedove. Già avvocato di Meloni, il sottosegretario ne infila a non finire: dalla presenza alla stessa festa dello sparo alla rissa con un sindaco meloniano. L’ultima è solo di qualche giorno fa, quando Delmastro ha pubblicato la fotografia della sua visita alla polizia penitenziaria – «non mi inchino alla Mecca dei detenuti» il sobrio rifiuto di confrontarsi con le persone recluse, oltre che con le guardie carcerarie – con in mano una sigaretta proprio al segno del divieto di fumo. Ma niente da fare, la fiducia non viene messa in discussione. Meglio prendersela con chi polemizza sul fascismo, come Andrea De Bertoldi, prontamente espulso dal partito. Di lui, per Meloni, non c’è da fidarsi.
 

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