Ai superstiti e alle famiglie delle vittime di Cutro non sono stati garantiti il permesso il soggiorno e i corridoi umanitari, non smette di dire Manuelita Scigliano della rete di associazioni 26 febbraio, a loro è toccata la stessa sorte di italiani di altre epoche, confrontarsi con l'attitudine di chi detiene il potere a mentire, a sminuire le sofferenze e il dolore. Per questo torna a risuonare oggi la parola che la gente ha gridato un anno fa davanti a Mattarella: giustizia
C’era il mare forza 5 e soffiava il ponente, ieri, sulla spiaggia di Steccato di Cutro, dove un anno fa, tra il 25 e il 26 febbraio, alle quattro del mattino, si schiantò il caicco Summer Love partito due giorni prima dalla Turchia.
A bordo c'erano 180 persone, morirono almeno in 94, tra cui 34 bambini, più undici dispersi. Il mare ruggiva ieri rabbioso e dolente, lasciando una schiuma bianca sulla secca in cui si infranse l'imbarcazione, spegnendo all'improvviso i sogni e i progetti dei suoi passeggeri, in gran parte afghani e iraniani, esuli politici e non migranti economici.
Mina Afghanzadeh, 24 anni, afghana, doveva raggiungere il marito in Europa, la famiglia decise che il fratello Farhad, 16 anni, l’avrebbe accompagnata. Torpekai Amarkhel era la giornalista fuggita dall'Afghanistan. Il piccolo Sultan aveva sei anni. E poi la sigla KR16M0 scritta sulla bara, in codice un bambino morto con meno di un anno, solo ieri è stato trovato con certezza il suo nome, si chiamava Mohamed Sina Hosseini. Sono morti in maniera orrenda, di freddo, tra le onde, o inchiodati alle travi della barca come poveri cristi in croce. Sono stati ricordati in questi tre giorni che culmineranno nella manifestazione di oggi e nella silenziosa fiaccolata in spiaggia delle quattro di notte, all'ora del naufragio.
Bisogna venire qui, in questo «luogo senza tempo», mi ha detto Vincenzo Montalcini, il direttore di Crotonews, un giornalista rigoroso e sensibile che fin dalle prime ore ha raccontato tutto quel che avveniva (e anche in un libro Quale umanità?, Idemedia). Avvicinarsi come in un pellegrinaggio laico. Ascoltare Vincenzo il pescatore, che rivive l'orrore, asciugarsi le lacrime quando impreca: «Ne avessi salvato almeno uno! Forse se non avessi preso il caffè prima di uscire forse ci sarei riuscito», come se la colpa fosse sua, e non di chi era tragicamente in ritardo mentre avveniva la strage.
Sì, la strage, come quelli che negli anni Settanta insanguinarono i treni e le stazioni.
Perché ci sono gli esecutori della traversata, gli scafisti, e ci sono le responsabilità di chi non ha salvato quelle vite, l'omissione di soccorso su cui indaga la magistratura. E poi c'è il romanzo di un potere che aveva individuato nei migranti il nemico.
«Non dovevano partire», disse un anno fa a caldo il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi, erigendo un monumento al cinismo. Piantedosi è tornato due giorni fa a Cutro, per assicurare che saranno mantenute le promesse di Giorgia Meloni. La premier ricevette le famiglie delle vittime a Palazzo Chigi dopo la figuraccia della conferenza stampa di Cutro, conclusa con una fuga ingloriosa. A salvare l'onore della Repubblica fu il presidente Mattarella che andò a trovare i morti riuniti nel PalaMilone di Crotone, diventato in quei giorni il nostro Pantheon. Colpisce che un anno dopo tocchi ancora al presidente rimproverare «il fallimento» della polizia di Piantedosi a Pisa, dopo il fallimento operativo e morale dello Stato a Cutro. A colmare il vuoto dei governanti, furono le istituzioni locali, con il sindaco di Crotone Vincenzo Voce e un tessuto spontaneo di accoglienza, umanità, dignità, che considerò le vittime una ferita di tutti, di tutto il paese.
Cutro, più delle stragi di Lampedusa del 2013 e del 2015, sintetizza l'indifferenza di chi doveva agire e non lo fece, come non ha mai smesso di denunciare il medico di Crotone Orlando Amodeo, dirigente di polizia, l'assenza dell'Europa di Frontex.
Ai superstiti e alle famiglie delle vittime di Cutro non sono stati garantiti il permesso il soggiorno e i corridoi umanitari, non smette di dire Manuelita Scigliano della rete di associazioni 26 febbraio, a loro è toccata la stessa sorte di italiani di altre epoche, confrontarsi con l'attitudine di chi detiene il potere a mentire, a sminuire le sofferenze e il dolore. Per questo torna a risuonare oggi la parola che la gente ha gridato un anno fa davanti a Mattarella: giustizia. Giustizia per chi è morto senza soccorso, per chi è stato lasciato solo in quella notte di un anno fa a morire sulla spiaggia di Cutro. Giustizia per chi è rimasto vivo e per i familiari delle vittime.
Giustizia anche per chi non si vede, per chi viene respinto in mare o nei campi di detenzione libici, condannati anche dalla recente sentenza della Cassazione. Per questo non bisogna smettere di ascoltare le voci di Cutro, dei vivi e dei morti, di questo cuore d'Italia, della nostra coscienza collettiva.
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