- È rispettoso sfruttare la sinistra fama di una capitale di mafia per fare audience? In Sicilia questa è materia che divide, scalda, fa salire il sangue alla testa.
- La richiesta è ben argomentata: la serie tv non è ambientata a Corleone, non sarà girata a Corleone e non parlerà di mafia di Corleone. E allora perché chiamarla “Lady Corleone”?
- C’è chi sostiene che la la censura non è mai bella e che proprio sul silenzio la mafia ha costruito il suo potere: “ Il sindaco avrebbe fatto meglio a non mettere quel veto che somiglia tanto a un minaccioso invito all'omertà”.
Si può usare il nome di un paese come un brand? È rispettoso sfruttare la sinistra fama di una capitale di mafia per fare audience? In Sicilia questa è materia che divide, scalda, fa salire il sangue alla testa.
In gioco c’è la reputazione di una comunità, in campo ci sono quelli che di certe cose ne vorrebbero parlare sempre e ci sono quegli altri che non ne vorrebbero parlare mai. L’ultima “discussione” ha come epicentro non un paese qualsiasi dell'isola ma proprio Corleone, il regno che fu di Totò Riina e di Bernardo Provenzano.
l sindaco Nicolò Nicolosi ha appena ufficialmente diffidato Mediaset e la Tao Due di Pietro Valsecchi per la preannunciata serie tv che ha come star Rosa Diletti Rossi, una ragazza appassionata di moda e cresciuta in una famiglia di mafiosi.
Niente di particolarmente scabroso o sconveniente, se non per il titolo della fiction - Lady Corleone - che ha fatto imbestialire tutti. Oltraggioso secondo il sindaco, «portavoce dell'indignazione di un'intera popolazione stufa dal doversi difendere da immagini poco rappresentative della realtà odierna e che evocano un tempo ormai remoto».
La vicenda è però un po’ più complicata di come sembra. Perché il sindaco non vuole semplicemente tutelare “il buon nome” del paese, pretende che quella parola - "Corleone” - sparisca dal titolo.
Un oltraggio per fini commerciali
La richiesta è ben argomentata: la fiction non è ambientata a Corleone, non sarà girata a Corleone e non parlerà di mafia di Corleone. E allora perché quel nome?
«Lo utilizzano per fini commerciali, non ci stiamo e rivendichiamo il diritto di protestare contro questo cinismo», scrive sul giornale online Città Nuove il direttore Dino Paternostro, che ricorda il percorso di liberazione del paese di questi ultimi anni e soprattutto del passato, uomini assassinati dalla mafia come il sindacalista Placido Rizzotto o del sindaco socialista Bernardino Verro. Ma non è finita qui.
La rivolta dei corleonesi si è scatenata ancora di più quando qualche osservatore, pur avendo voglia di dar ragione al primo cittadino, ha spiegato che la censura non è mai bella e che proprio sul silenzio la mafia ha costruito il suo potere. Insomma, il sindaco avrebbe fatto meglio a non mettere quel veto che somiglia tanto a un minaccioso invito all'omertà.
L’atmosfera si è ulteriormente surriscaldata e l’amministrazione comunale ha chiesto alla produzione di Lady Corleone di ripensarci «per non essere costretti ad intraprendere ulteriori azioni a tutela della nostra onorabilità e del nostro futuro». C’è aria di avvocati.
La fiction della discordia va in scena in un particolare momento di Corleone, di trapasso, di cambio d’epoca dopo mezzo secolo di famigerata celebrità nel mondo.
Negli anni Cinquanta i boss americani l’avevano soprannominata Tombstone, pietra tombale, per una sanguinosissima guerra fra i clan. Poi, nel 1972, la notorietà del paese venne rilanciata a livello internazionale da Il Padrino di Francis Ford Coppola.
Anche nel capolavoro cinematografico si è giocato tanto sulla suggestione del nome sapientemente affibbiato a Marlon Brando, il protagonista del film: Vito Corleone, Vito come Ciancimino (l’ex sindaco mafioso di Palermo) e Corleone come il paese.
Lo stato fuori tempo massimo
Poi ancora i delitti eccellenti e le stragi, con Corleone ancora al centro della trama. Quando lo strapotere di quei boss è finito Corleone è scomparso dalle mappe geografiche della mafia, quasi dimenticato. Tranne che dallo Stato, che come sempre è arrivato fuori tempo massimo.
È del 2016 il primo scioglimento del comune per infiltrazioni. E cioè quando, mafiosamente parlando, il paese non contava più niente. In quegli stessi mesi per le campagne corleonesi si aggiravano boss ultranovantenni che, straparlando, imprecavano contro l'allora ministro dell'Interno Angelino Alfano.
Nelle loro chiacchiere un po’ da rimbambiti l’avevano paragonato al presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy, che prima «aveva preso i voti» degli amici e poi agli amici «aveva voltato le spalle».
I quotidiani titolarono: «La mafia di Corleone vuole morto Alfano». Una forzatura evidente, tant'è che il procuratore di Palermo Francesco Lo Voi si sentì in dovere di precisare «che si trattava di una critica piuttosto che di un vero progetto di attentato». Che altro aggiungere?
La mafia di Corleone, a dispetto dell'ultima fiction, non è certo più quella di una volta. Su Angelino che è stato paragonato addirittura a Kennedy, come usa esprimersi in Sicilia la meglio parola è quella che non si dice.
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