Nel Milleproroghe l’ultimo atto ostile verso il mondo dell’informazione, con lo stop imposto da Palazzo Chigi alla pubblicità legale sui quotidiani. Un giro da 45 milioni utile alle realtà più piccole
Un taglio indiscriminato delle risorse destinate al settore, norme che limitano la libertà di stampa come l’emendamento-bavaglio proposto da Enrico Costa, diventata norma definitiva con il via libera al Senato della legge di delegazione europea. E, immancabili, una serie di querele o cause civili per articoli sgraditi firmate da ministri e sottosegretari di primo piano. Il governo ha gettato la maschera, manifestando tutta la sua ostilità nei confronti della libertà di informazione. L’ultimo atto, in ordine cronologico, è la cancellazione della pubblicità legale sui giornali, quella per pubblicizzare gli appalti.
Niente pubblicità
La firma definitiva del niet governativo è stata apposta sul decreto Milleproroghe, in esame alla Camera, nonostante i parlamentari della stessa maggioranza avessero presentato un emendamento per estendere la norma di almeno un altro anno. Dando ossigeno a un settore in affanno: nel 2023 la pubblicità legale ha garantito introiti per circa 45 milioni di euro ai quotidiani. Soldi che per realtà più piccole sono decisivi.
Certo, non è stato un fulmine a ciel sereno: l’esecutivo aveva già detto un doppio “no”, prima con il ministro del Pnrr, Raffaele Fitto, e poi con quello delle Infrastrutture, Matteo Salvini. Un asse di ferro tra Fratelli d’Italia e Lega, sul piano governativo, che ha zittito anche la proposta dei deputati dei loro partiti, firmatari dell’emendamento-proroga. A nulla è servito il parere favorevole espresso dal sottosegretario all’editoria, Alberto Barachini.
Alla fine, i testi della maggioranza sulla pubblicità legale sono stati ritirati per evitare l’onta della bocciatura. La motivazione ufficiale è che, con il nuovo codice appalti previsto dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, la procedura è tutta informatizzata. Insomma, ce lo chiede l’Europa, dice informalmente il governo. E pazienza se su altri dossier, su tutti le concessioni per ambulanti e balneari, la destra è disposta ad andare al braccio di ferro con Bruxelles. Per le lobby amiche si fa di tutto, per contrastare la stampa si fa anche di più.
Le intenzioni erano chiare da mesi: il bilancio di Palazzo Chigi ha messo nero su bianco la volontà di diminuire i fondi al settore dell’informazione. Tra i capitoli di spesa della presidenza del Consiglio, quello ridotto in misura maggiore è stato proprio quello dell’editoria, passato 247 a 97 milioni: è stato più che dimezzato. A pesare è stato in particolare l’azzeramento del fondo straordinario, finanziato fino allo scorso anno con 140 milioni di euro.
Lo strumento era stato istituito durante le ondate di Covid e confermato per fronteggiare un quadro comunque critico. Il governo Meloni non ha avuto dubbi: dovendo fare cassa, ha individuato come vittima sacrificale il dipartimento guidato da Barachini, esponente di Forza Italia. Il sottosegretario all’editoria ha potuto fare poco dinanzi ai desiderata provenienti dai piani alti dell’esecutivo.
Lo stop alla pubblicità legale è solo un esempio. Ora la battaglia potrebbe riprendere su altri terreni per fare in modo che quelle risorse legate alla pubblicità legale rientrino in circolo, nel mercato editoriale. Sono ipotesi. Intanto, per tamponare l’emergenza, il dipartimento di Barachini ha messo a disposizione 7 milioni di euro per i prepensionamenti dei giornalisti, e altri 22 milioni di euro per i prepensionamenti dei poligrafici, attingendo in buona parte dal fondo per il pluralismo. Ci sono qua e là altri interventi, come quello sul credito di imposta. Ma alla fine si avverte l’impatto del taglio deciso dai vertici di Palazzo Chigi.
Querele a destra
E che il livello di tensione con la stampa sia in aumento è chiaro su più fronti. Domani, come raccontato in un articolo di ieri, ha subito una serie di azioni legali, o anche solo di minacce di querela, da parte di esponenti dell’esecutivo. Ma anche gli altri giornali sono bersagliati. Si parte da piccoli quotidiani, come La Notizia, schierati su posizioni critiche nei confronti delle politiche di Giorgia Meloni, fino a giornali vicino al governo, come Il Tempo e Il Giornale.
Significativo il fatto che in un editoriale congiunto, i due direttori, Davide Vecchi e Alessandro Sallusti, hanno reso noto che i ministri Guido Crosetto e Adolfo Urso hanno avviato azioni legali verso le loro testate: «Che un governo di destra, attraverso due suoi rappresentanti, provi a estorcere soldi a giornali che per loro, e direi nonostante loro, hanno combattuto e combattono gratis battaglie epocali contro chi li voleva e li vorrebbe morti, è il segno di quanto il potere possa dare alla testa e fare perdere lucidità», hanno scritto.
Nella morsa che stringe la stampa, arrivano infine leggi chirurgiche che riducono gli spazi di informazione. Come nel caso della legge-bavaglio che vieta di pubblicare le ordinanze cautelari. In questo clima, la prospettiva di una riforma contro le querele temerarie diventa un’utopia.
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