- Ebbene sì, lo confesso: sono un cattodem. E sento di esserlo non perché ho avuto una breve esperienza politica negli anni ‘70 in un partito, ma perché mi identifico con uno sguardo complessivo sulla democrazia e sul suo funzionamento.
- La vita sociale funziona come intreccio tra una scena pubblica (dove politica, mass media, religione ed economia dettano direzioni, linguaggi e simboli) e una scena meno visibile (familiare, amicale, quotidiana) dove avvengono i processi che costruiscono senso e fiducia tra le persone.
- Questo articolo si trova sull’ultimo numero di POLITICA – il mensile a cura di Marco Damilano. Per leggerlo abbonati o compra una copia in edicola
Ebbene sì, lo confesso: sono un cattodem. E sento di esserlo non perché ho avuto una breve esperienza politica negli anni ‘70 in un partito, ma perché mi identifico con uno sguardo complessivo sulla democrazia e sul suo funzionamento.
Infatti ho cercato di declinare la mia passione per l’educazione alla democrazia nel mio lavoro con cui da più di trent’anni costruisco percorsi di welfare che aiutano le comunità locali ad appropriarsi dei problemi che le attraversano.
Il dibattito verso il congresso del Pd ha posto, correttamente, il tema del contributo del cattolicesimo democratico all’interno del ripensamento complessivo che questa forza politica sta compiendo. Un contributo che non può limitarsi alla rivendicazione di riserve indiane, parole chiave che rimandino a “valori irrinunciabili” o anacronistiche riproposizioni di cose o cosine bianche.
Per me il cattolicesimo democratico non coincide solo con la storia di alcune figure politiche, né con quella di un partito o di una corrente specifica (la sinistra Dc, il Partito popolare, ecc.); non si limita all’impegno nel sociale, ma nemmeno all’impegno in istituzioni e partiti.
È piuttosto la posizione che vede la democrazia non solo come un insieme di pur importanti articolazioni giuridico-istituzionali, ma innanzitutto come una mentalità attiva e critica verso il contesto, come la memoria di tutte le pratiche che hanno consentito all’umanità, nelle diverse epoche storiche, di gestire i conflitti non ricorrendo alla violenza.
È la consapevolezza che questa mentalità non si trasmette per telepatia, ma ha bisogno di un continuo ‘innaffiamento’ educativo e di un intenso traffico sociale e che senza questa alimentazione il delicato, complesso e minoritario esperimento che chiamiamo democrazia, muore.
È l’idea che per fare tutto questo c’è bisogno di un’energia interiore a cui serve un’alimentazione fatta di sguardi che vadano oltre il dato sensibile. Un politologo liberale non credente come Giovanni Sartori ha sostenuto che solo l’acquisizione giudaico-cristiana di un Dio personale per il quale ognuno di noi come singolo è importante, poteva fondare la dignità di ogni singola persona e dunque la sua libertà. Ma questo non significa necessariamente ispirazione religiosa (siamo tutti attraversati da dubbi, illuminazioni, speranze, cadute e risalite spesso molto faticose), bensì al fondo, in termini laici, una risposta non cinica né meramente utilitaristica al problema del senso, vale a dire alla domanda su cosa siamo venuti a fare in questo mondo, che è il problema principale che siamo chiamati ad affrontare quando veniamo scaraventati nella vita senza che ci sia stato chiesto un previo consenso.
Per questo il problema del cattolicesimo democratico non si limita alla tutela di una tradizione, ma coincide col tema della democrazia tout court, della sua fondazione e della manutenzione delle condizioni perché possa continuare a esistere e svilupparsi.
Valorizzare questo sguardo è decisivo in un momento come questo dove siamo costretti a ripensare la democrazia delle fondamenta. Non è una discussione sui massimi sistemi: sono successe e stanno succedendo vicende enormi e molto concrete che però sembrano faticose da assimilare.
Un clima non umano
La vita sociale ha sempre funzionato come intreccio tra una scena manifesta, pubblica (dove politica, mass media, religione ed economia dettano direzioni, linguaggi e simboli) e una scena meno visibile (familiare, amicale, quotidiana) dove nel faccia a faccia ravvicinato avvengono i processi che costruiscono senso e fiducia tra le persone.
Tra le due scene ci sono sempre stati dei mediatori (corpi intermedi: partiti, sindacati, associazioni) con la funzione di trasportare le ragioni della scena privata sulla scena pubblica e di hanno rendere assimilabile, attraverso grandi narrazioni, la scena pubblica nella scena privata.
La scena pubblica nell’ultimo trentennio ha compiuto progressivamente un cambio di paradigma condensabile nella locuzione “immaterialità x velocità”, dove spazio e tempo (le condizioni base in cui si svolge l’esperienza umana) sono stati ridotti a variabili inessenziali.
I nuovi dispositivi tecnologici (prodotti a un ritmo quotidiano) modificano concretamente e chirurgicamente la nostra vita quotidiana. È come se invenzioni del tipo di ruota, fuoco, elettricità, treno e areo venissero alla luce ogni settimana. Cerchiamo di adattarci al ritmo, ma i cambiamenti interiori che producono non sono psicologicamente assimilabili e ci travolgono.
Il corpo tende a venire considerato un’ingombrante appendice. Si stima che prima del Covid trascorressimo due terzi della nostra giornata davanti a un device; con la pandemia siamo arrivati al 90%. Il punto è che la fiducia tra le persone si costruisce con lo sguardo occhi negli occhi: non siamo puri spiriti; siamo corpi che pensano o, se si preferisce, pensieri dentro a un corpo; il corpo con i suoi silenzi, i suoi colpi di tosse, le sue esitazioni, i suoi sguardi bassi, comunica molto più delle parole.
A questo si aggiunge la velocità supersonica di tutti i processi indotti dai suddetti dispositivi; una velocità che deve propagarsi ai mezzi di locomozione e alle decisioni richieste a chi lavora, e che produce su ogni singola persona un carico di informazioni e prestazioni da gestire equiparabile a ciò che solo quindici anni fa trattavano dieci persone.
Certo le tecnologie aiutano. Ma pensano in modo semplificato. E il mondo si è riconfigurato “a misura delle tecnologie”. Se il mondo viene impostato a misura di macchina non può non diventare mainstream, implicitamente, chi non tiene il ritmo del 4.0 o del 5G, chi non è costantemente online (non solo anziani, matti e disabili, ma chiunque sia attraversato da forme di vulnerabilità) è fuori. Il combinato disposto di immaterialità e velocità, ci fa sentire di avere letteralmente il mondo tra le dita (nello smartphone), di essere “creatori del mondo” e ci rende impazienti verso lentezze, gradualità, potenzialità inespresse, fragilità d’ogni tipo, producendo attese onnipotenti verso noi stessi e verso gli altri (coniuge, figli, vicini di casa, colleghi di lavoro, gestori delle istituzioni).
Le macchine non hanno pazienza, non si perdono in attività inutili e cincischianti come i pensieri.
Velocità e disintermediazione consentono di espandere a dismisura la bulimia di beni, esperienze e sensazioni che a partire dagli anni ‘70 è diventata la cifra dell’occidente: un’autorità invisibile ci obbliga a cogliere tutte le opportunità che continuamente occhieggiano da ogni dove, infliggendoci, nel caso non vi si riuscisse, la sanzione di persone inadeguate.
Questo clima, dove si esige la perfezione come normalità e che dunque con ragione può definirsi non umano, ha preso il dominio della scena pubblica mentre la scena meno visibile e privata, dove avviene la costruzione di senso e fiducia attraverso la vicinanza fisica tra le persone, non sembra avere più efficaci mediatori verso la scena pubblica dominata dalle dinamiche possenti cui si è accennato.
Partiti e sindacati sono infatti in crisi di iscritti e credibilità, mentre il terzo settore, pur mantenendo un discreto (ma non eterno) appeal, registra un calo di volontari legato alla chiusura del trentennio di pensionamenti a 50-55 anni, posto di lavoro sicuro o probabile per i figli e scarsi gravami di cura verso grandi anziani.
I nuovi vulnerabili
La ricaduta più evidente di questo clima non umano è un gigantesco smottamento tellurico avvenuto in Occidente tra la fine del secondo millennio e l’inizio del terzo: l’esplosione dell’impoverimento del ceto medio a causa di un mix fatto di evaporazione di reti familiari e sociali, spinta bulimica alla collezione inesausta di beni ed esperienze, conseguente diminuzione delle disponibilità economiche.
In questo contesto anche eventi che fanno ormai parte della naturalità dello svolgimento di una vita (separazioni, demenza dei genitori, perdita temporanea del lavoro) mettono persone e famiglie che non avevano mai conosciuto difficoltà nell’arrivare a fine mese, sul piano inclinato dell’impoverimento anche quando sono sopra la soglia Isee, perché il capitale cruciale per la tenuta è costituito soprattutto dalle reti che aiutano a rielaborare le difficoltà e offrono opportunità. Se questa dotazione scarseggia, la situazione si fa critica, spesso insostenibile più sul piano psicologico che su quello economico.
L’impoverimento del ceto medio (30 per cento delle famiglie nel nord Italia, 60 per cento su scala nazionale secondo Università Bicocca, Banca d’Italia ed Eurispes) se dapprima è stato vissuto dai protagonisti con vergogna, dovuta alla sensazione di non sentirsi all’altezza delle prestazioni richieste da questo mondo con l’asticella sempre troppo alta, dopo la crisi del 2008, col peggioramento diffuso delle condizioni economiche e l’aumento della precarietà lavorativa, è diventato risentimento, anche perché confrontato con l’altro grande smottamento tellurico avvenuto in questo stesso periodo: il fenomeno migratorio, vissuto come minaccia.
Il grande rimescolamento
È in atto un grande rimescolamento nel mondo. Il Mediterraneo è un confine simbolico tra un ceto medio che scende (con un declino che rappresenta la progressiva minore centralità dell’Occidente e dei “bianchi”) e l’entrata in gioco nel mondo di milioni di persone congelate per lungo tempo come paria in luoghi dove conducevano una vita a parte e che consentivano a noi occidentali di vivere con maggiore agio: sono un po’ più istruite e curate, hanno maggiore accesso alle informazioni. Giustamente vogliono prendere parola. Inevitabilmente lo fanno in modo spesso scoordinato, “improprio”, “politicamente scorretto”. Ovviamente vengono strumentalizzate da abili manipolatori.
Fatalmente i più agiati si sentono spaesati, perché vivono queste novità innanzitutto come un disordine, una messa in questione di un ordine in cui era più chiaro “chi aveva ragione e chi torto”. In realtà siamo come nel livello ulteriore di un videogame, dove le regole del livello precedente sono completamente ricombinate in un gioco diverso, più complesso, più sfidante, più difficile sul piano cognitivo, ma soprattutto emotivo.
Ciò che appare come disordine è un ordine in costruzione per il quale non abbiamo ancora categorie adeguate di lettura. Questo non significa assolutamente che tutto ciò che abbiamo imparato vada buttato via; va semplicemente utilizzato in modo nuovo. Il grande rimescolamento richiede un atteggiamento vigile, ma accompagnante.
Sovranisti, populisti e No vax
L’irresistibile discesa del ceto medio e il grande rimescolamento non sono eventi facili da rielaborare a livello collettivo e individuale. I movimenti sovranisti, populisti e no vax traggono le loro radici da questa difficoltà di rielaborazione.
Una nuova narrazione può essere allestita soltanto in una relazione ravvicinata, prendendo spunto dai problemi concreti che queste persone vivono, per costruire legami sociali e proponendo rielaborazioni assimilabili sul senso del vivere in queste nostre comunità. È insomma il compito educativo che la politica ha sempre avuto e che ha dismesso in nome dell’inseguimento dei sondaggi, dell’istante, dello sharing.
Se pensiamo che questi movimenti siano popolati solo da gente che ci odia non riusciremo mai a entrare in contatto con la falda profonda che origina tutto ciò. Se l’operazione sovran-populista è orchestrata da abili manipolatori, tra i seguaci (quelli che intercettiamo nella vita quotidiana, quelli la cui sorte dovrebbe starci a cuore) c’è un’ampia gamma di persone che va da chi è decisamente disturbato psichicamente a chi è semplicemente spaventato, spaesato e anche umiliato da chi nell’establishment non è riuscito entra in contatto con questa faglia profonda, con l’origine di questa paura e magari si è limitato a correggere qualche congiuntivo.
Il politicamente corretto
È importante vedere che questo atteggiamento supponente e distante riguarda le forze politiche democratiche dei paesi occidentali. Quello del Pd è solo un caso di studio di un trend mondiale.
Cosa è successo negli ultimi trent’anni perché si generasse l’attuale situazione dove le destre prendono le difese del popolo che soffre e come mai a volte alcune parole d’ordine di questi nuovi movimenti sono sovrapponibili a quelle di Fridays for future?
È successo che quel mondo veloce, violento, non umano innescatosi poderosamente a partire dal crollo del muro di Berlino con l’illusione che, crollato l’avversario storico, il capitalismo potesse veleggiare indisturbato senza limiti, senza conseguenze per l’ ambiente naturale e per la vita sociale, è stato governato in tutte le nazioni che costruiscono l’immaginario occidentale (Stati Uniti, Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna e Italia) anche delle forze di centro sinistra. Lo scandalo della Lehman Brothers aveva lanciato un campanello d’allarme alla fine del ventennio turbocapitalista, ma abbiamo proseguito con aggiustamenti, illudendoci come mondo occidentale che fosse una crisi passeggera e illudendo i cittadini che sarebbe bastato ‘tirare un po’ la cinghia’ per tornare ai fasti precedenti.
Certo, era importante difendere l’agenda Draghi, alimentare il senso di responsabilità e non aizzare le folle, ma se al contempo non vengono allestiti altri luoghi in cui si avvicinano le persone, il disorientamento non può che incanalarsi verso chi riesce (pur con modalità semplificatorie e manipolatorie) ad essere vicino a questi nuovi disorientamenti.
Il pensiero democratico e le sue declinazioni pratiche nelle istituzioni e nelle forze sociali e politiche, sta mostrando un grosso ritardo nel prendere contatto con queste diffuse preoccupazioni delle persone, con la conseguenza di consistenti spostamenti di consenso in occasione delle elezioni politiche soprattutto in Stati Uniti, Gran Bretagna e Italia (da noi nel 2018 e nel 2022 è stato eletto un parlamento a maggioranza sovran-populista). Ci si ferma alla (pur decisiva) riaffermazione dei diritti, dimenticando che un diritto è vigente solo se c’è consenso sociale intorno al fatto che debba essere rispettato, immaginando che le persone siano mosse solo dal calcolo razionale e non da passioni (generative, distruttive e autodistruttive), dando per scontato che quel plancton costruttore di senso e fiducia della “scena privata” si riproduca automaticamente in eterno.
Così si tende a ribadire come unica modalità di intervento la raccolta di firme, la manifestazione di piazza, la proposta del consueto iter “costruzione di consenso a partiti politici che portano le istanze nelle istituzioni che promulgano norme giuridiche che cercano di organizzare ricadute utili per la vita quotidiana” : itinerario corretto sul piano formale, ma che ormai viaggia su tempi incompatibili con la velocità dei processi sociali, culturali ed economici e che dunque va accompagnato da un intenso confronto sociale, da una vicinanza nel qui ed ora su problemi concreti. Anche quando questo confronto viene allestito con le migliori intenzioni, si riduce spesso a un adempimento (magari nei format della democrazia deliberativa– word cafe’, open space, …-) dove sovente traspare fastidio per l’incontro coi cittadini e comunque scarsa curiosità per le idee che potrebbe portare la gente e tenue consapevolezza della straordinaria occasione di educazione civica che questi percorsi partecipati rappresentano per rielaborare il risentimento diffuso tra persone spaventate e disorientate.
Si è andato così costruendo un nuovo puritanesimo eco-bio, vegan, lgbt, animalista, col suo corredo di sacerdoti addetti alla tutela della religione che irride chi è disorientato, chi non riesce a formulare domande adeguate ai format per rivolgersi alle istituzioni, chi non è abbastanza smart o digitale, e che mentre esige l’espansione illimitata di benessere, diritti e desideri, non mette in discussione lo sviluppo iperveloce e distruttivo che ha prodotto il clima inumano prima descritto (molto istruttivi al riguardo sono i film The Square e The Hater). Beninteso stiamo parlando di diritti sacrosanti per cui bisogna battersi in modo inesausto. Il problema è che non possono venire immediatamente compresi da quel 30% di nuovi vulnerabili che in questo momento è profondamente impaurito e disorientato. E se alcuni strumentalizzano tale disorientamento allestendo un bombardamento dei nostri neuroni attraverso i social per ridurre le nostre competenze cognitive rendendo il popolo una massa di persone sole e spaventate, incapaci di discernere le notizie false da quelle vere per poi fare appello al popolo sovrano rimbecillito (da Barabba a Tocqueville sappiamo che la maggioranza non ha sempre ragione), dall’altra parte non si è visto muovere un solo passo per allestire, ad esempio, bombardamenti di notizie positive utilizzando l’intelligenza artificiale, ma soprattutto per avvicinare fisicamente le persone spaventate allo scopo innanzitutto di rassicurarle. Il messaggio di un’autorità democratica non è “delegami che ci penso io”, ma “sono qui con te a condividere questa difficoltà; cerchiamo di costruire qualcosa insieme”.
Si è dato per scontato che una volta sanciti nella Costituzione, i diritti fossero acquisiti per sempre dalle generazioni successive, così si è pensato che, istituti i servizi di welfare, ci si potesse concentrare solo sui nuovi diritti che sono l’emblema di una società meno sadica, senza però tutelare le dimensioni bulimiche, distruttive e autodistruttive che strutturalmente attraversano le società, come se la storia non avesse mostrato a più riprese che quando si sanciscono dei diritti si apre una voragine desiderante che ne esige sempre di più e una competizione per averne più degli altri; lo Stato è impossibilitato a far fronte a tutte queste richieste, con un’inevitabile sequenza di piani e interventi che da un lato per esigenze di consenso, mettono qualche “pezza” a favore di chi urla più forte e dall’altro applicano in un’ottica meramente burocratica norme decise molti anni prima senza adattarsi alle novità del contesto e soprattutto senza avvicinarsi mai alle persone. La nuova grande area di povertà di cui si è detto è anche frutto di questa miopia. L’esito è che rispetto alle povertà tradizionali che nel Nord Italia riguardano non più del 5% della popolazione, abbiamo servizi, misure, competenze e finanziamenti, mentre rispetto alle nuove povertà, che riguardano almeno il 30 per cento della popolazione del Nord e che sono politicamente cruciali, non ci sono servizi, misure, competenze e finanziamenti.
Ma non è che se guardiamo al mitico Stato sociale del Nord Europa troviamo una situazione idilliaca: c’è una maggiore fedeltà fiscale, una tassazione molto più elevata, servizi eccellenti sul piano delle prestazioni, ma anche lì risentimenti e bulimia non sono disinnescati, ma soprattutto servizi pensati in un’ottica individualistica non contengono lo sfilacciamento dei legami sociali né l’aumento della depressione e dei suicidi. Quando incontro responsabili di servizi sociali di queste nazioni mi raccontano sempre che noi italiani non dobbiamo imitare il loro modello, perché alla fine siamo più felici di loro. Questo non significa che gli italiani siano esentati dal produrre buoni servizi, ma è decisivo ricordare che non si crea amministrativamente il senso della vita, come amava dire Achille Ardigò (uno dei padri del cattolicesimo democratico) e che dunque il problema riguarda soprattutto la costruzione di legami sociali dotati di senso. Welfare e democrazia stanno e cadono insieme essendo il primo il prodotto più prezioso della seconda. È infatti il welfare che garantisce la fraternità che è la vera condizione sufficiente per la democrazia. Libertà ed uguaglianza sono necessarie, ma non sufficienti.
In questa situazione il processo di delegittimazione complessiva delle istituzioni è in stato avanzato. Lo spazio pubblico si è fatto pericoloso e insidioso, perché il risentimento diffuso ha come “presa a terra” principale le amministrazioni locali: la gente non va a protestare alla BCE; non fa distinzione tra Comune, Regione, Stato, Ue e si rivolge al luogo più vicino.
Così i tanti amministratori locali di centro sinistra, che costituiscono un’ossatura fondamentale del governo del nostro Paese, devono destreggiarsi tra i continui attacchi sui social, un diluvio di norme da gestire spesso oscure e contraddittorie, il costante rischio di avvisi di garanzia, fiumi di ricorsi alla giustizia amministrativa, col risultato di un rallentamento quando non addirittura una paralisi delle possibilità di azione.
Dunque per costruire il bene comune della comunità locale bisogna prima riallestire le condizioni di fiducia verso le istituzioni come casa di tutti e prima ancora verso chi nella società è portatore di idee differenti.
E il Pd?
Il problema del Pd, ultimo grande partito dotato di democrazia interna, con un numero di iscritti ancora rilevante (benché consistentemente diminuito), collocato nel governo del trend mondiale turbocapitalistico e del suo declino post 2008, non consiste in ciò che ha fatto (in fondo una buona tenuta di governo con leggi e provvedimenti spesso adeguati, anche in ragione della necessaria mediazione con forze politiche di orientamento differente), ma in ciò che non ha allestito: il presidio delle condizioni per la manutenzione della democrazia, del legame sociale, del senso della vita comunitaria, in particolare la vicinanza al 30 per cento dei nuovi poveri del ceto medio (un fenomeno che ha cominciato ad albeggiare alla fine dello scorso millennio).
Così, travolto dal voto del 4 marzo 2018, non ha progettato in modo industriale una serie di occasioni di contatto con questa “nuova gente” da tempo in esodo (prima silente, poi rumoroso) dalla cittadinanza, limitandosi ad incontrare la “sua” gente, in momenti per la verità anche abbastanza affollati (in fondo amministratori locali e iscritti ai partiti, associazioni e sindacati costituiscono al massimo il 10 per cento della popolazione e non c’è mai stata una maggioranza di persone politicamente attive), ma senza rendersi conto che questo 10% di pensionati, laureati, lavoratori a tempo indeterminato, cittadini Ztl, non rappresenta più il resto della popolazione, che non è più trainabile da questa minoranza di impegnati, e, spaventata ed esasperata, viene risucchiata verso altre derive allestite da chi si preoccupa di intercettarla (con modalità manipolatorie: gli specchietti per le allodole dei meetup grillini o i TikTok di salviniana memoria), trasformandola in un nuovo soggetto attivo anche grazie ai social.
Insomma accanto ai provvedimenti che, attraverso norme e stanziamenti finanziari, costruiscono politiche per andare incontro alle difficoltà dei cittadini, serviva e serve tuttora un altro canale di incontro costante, diffuso e scientificamente progettato per intercettare intorno alla discussione sui problemi concreti delle comunità locali, chi non viene abitualmente agli incontri convocati dal partito, ma anche più in generale non partecipa più.
Ovviamente si tratta di viaggiare controcorrente, perché i partiti politici, tutti i partiti, non sono più da tempo luoghi di integrazione tra i diversi attori sociali, di composizione paziente dei diversi interessi, di formazione e informazione dei cittadini, di costruzione di legami sociali.
D’altra parte anche sul piano della regolazione legislativa delle istituzioni, la deriva illuministica delle forze di centro sinistra nell’Occidente a partire dalla caduta del muro di Berlino, ci ha attraversato non poco: in un Paese come l’Italia che ha solo 160 anni di storia, attraversati da due guerre mondiali, un ventennio di dittatura, una grande forza popolare di opposizione rimasta antisistema fino al 1969, abitato di alcune tra le più importanti forze criminali malavitosi del mondo, con una spaccatura profonda nord-sud, una produzione legislativa decupla rispetto alla Germania, dove quindi governare non può essere che è una paziente e faticosa composizione alchemica di una miriade di interessi e comunità locali, la scelta per il sistema elettorale maggioritario, ma anche il passaggio da Ulivo a Partito democratico mi sono sempre sembrate semplificazioni eccessive rispetto alle specificità italiche. È una deriva proseguita con l’eliminazione dei quartieri al di sotto dei 200.000 abitanti, la riduzione all’impotenza delle Province, il robusto taglio del numero dei parlamentari, l’accorpamento di BCC, Camere di commercio e Centri di servizio per il volontariato: insomma una riduzione drastica degli airbag tra il cittadino e le dinamiche globali violente e disumane di cui si è detto.
Certo, il Pd non è l’unico partito di centro sinistra occidentale che ha contribuito a diminuire le difese del cittadino verso il mondo iperveloce e acorporeo. Ma se è vero che non si può fermare il vento con le mani, assistere a questo degrado senza tentare un colpo d’ala sarebbe colpevole. E il colpo d’ala non è la scelta del leader, dello slogan, del tweet più figo o della trovata (ad esempio il bar in sezione). È piuttosto la pianificazione strategica di una nuova modalità di lavoro di territorio e la sua realizzazione paziente, costante, umile. È vero che bisogna ritornare tra la gente, ma bisogna tornarci con delle ipotesi adeguate su ciò che sta succedendo nelle persone.
Essere all’opposizione oggi può essere una grande opportunità per il partito democratico solo se si recuperano questi fondamentali, altrimenti la strada è verso un più o meno veloce, ma irrimediabile declino. Trattandosi di fondamentali, il cattolicesimo democratico, che ha fatto da sempre manutenzione del senso, sembra particolarmente utile.
È probabile che nei prossimi anni che i cattolici democratici, che hanno sempre svolto un ruolo cruciale nelle massime istituzioni italiane ed europee, saranno meno decisivi nella scena pubblica, senza smettere di esercitare un ruolo essenziale nella scena meno visibile. Il cattolicesimo democratico, avendo un’attenzione complessiva alla democrazia come processo non solo istituzionale, è dotato di una competenza decisiva nel transito dalla scena privata a quella pubblica che è il problema chiave di questo tempo. È qui che il cattolicesimo democratico può essere lievito in senso evangelico e politico.
Uno sguardo sociologico laico riconosce che oggi il mondo cattolico (con i suoi centri di ascolto, le sue associazioni di volontariato, la cooperazione sociale) rappresenta nel nostro Paese il più ampio tessuto di esperienze di generosità, di costruzione di legami, di allestimento di risposte in questo tempo dove una marea di flussi comunicativi bombarda le persone per tenerle sole e spaventate.
È del tutto evidente che senza il drenaggio culturale del cattolicesimo democratico queste esperienze sarebbero attratte da sirene di diverso ben segno.
Quanto è interessato il Pd a riconoscere l’essenzialità di questa funzione?
© Riproduzione riservata