«Eccoci, siamo sempre qui a difendere la nostra dignità, il lavoro, il futuro dei nostri figli». Napoli Est, via Argine, di nuovo davanti ai cancelli della Whirlpool. Decine di operai presidiano gli ingressi della fabbrica per evitare che la proprietà porti via materiale e macchinari.

Luciano Doria è uno di loro. Passerà il Natale così, con gli altri suoi compagni di lotta per dire all’Italia che si divide su norme anti Covid e cenone di capodanno, ci siamo anche noi. Operai che rischiano di perdere per sempre posto di lavoro e certezze. Padri di famiglia che non avranno il coraggio di guardare negli occhi i figli.

L’attesa infinita

Tutto è incerto. Martedì un’assemblea, lunedì l’ennesimo incontro con azienda e governo. Altre delusioni, altre battaglie da organizzare. «I vertici dell’azienda affermano di non aver ricevuto danni dalla pandemia, anzi, dicono che il fatturato è aumentato e pure il valore del pacchetto azionario. Nel frattempo se ne fottono del governo e degli accordi sottoscritti. Tutti gli scenari sono aperti e noi viviamo nell’incertezza più totale», ci dice Luciano.

Nell’incontro con governo e sindacati, i vertici della multinazionale con sede in Michigan, sono stati chiari, i 370 lavoratori della fabbrica napoletana riceveranno il loro salario fino al 31 dicembre, poi inaugureranno il 2021 finendo in cassa integrazione, ma fino al 31 marzo, quando scatterà la mannaia dei licenziamenti collettivi.

Enea La Morgia, vicepresidente della Whirlpool in un colpo ha stracciato tutti gli accordi sottoscritti lo scorso 25 ottobre. I sindacati si sono infuriati, il governo, rappresentato dalla sottosegretaria in quota Cinquestelle Alessandra Tolle, si è aggrappata alla labile promessa di fumosi piani di riconversione. “I miei figli sono grandi, si informano, mi fanno sempre la stessa domanda: perché la fabbrica chiude? E io non sono cosa rispondere”.

Raffaele Romano è un operaio della Whirlpool e dirigente della Fiom Cgil. «L’azienda è in crescita, i vertici dicono di essere usciti indenni dalla pandemia con un fatturato che aumenta. Le nostre lavatrici sono all’avanguardia e tirano sul mercato, ma vogliono andar via da Napoli. Il perché è un mistero. L’unica cosa chiara è il ricatto. Whirlpool vuole i licenziamenti, altrimenti non anticipa i ratei perla cassa integrazione Covid destinata agli altri siti industriali che ha in Italia».

Mentre i profitti della multinazionale lievitavano, con la soddisfazione degli azionisti che nell’ultimo trimestre del 2020 hanno visto crescere le loro azioni del 4,61 per cento, gli

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perai si dibattevano tra incertezze e salari decurtati dai contratti di solidarietà.  «Attorno alla fabbrica – racconta Romano – volteggiano tanti avvoltoi, presunti imprenditori che si dicono pronti a rilevare lo stabilimento, gente attirata solo dai soldi messi a disposizione dal governo, cento milioni, e dalla Regione, altri 20. Questa è una crisi indotta, mascherata, si gioca con la nostra vita e quella delle nostre famiglie, ma dietro c’è altro».

L'eterna dismissione

E’ la Napoli «della eterna dismissione». Andrea Amendola cita il titolo del bel romanzo di Ermanno Rea e del suo racconto sulla morte definitiva del colosso Italsider di Bagnoli, atto prima della deindustrializzazione partenopea. «Napoli –  dice – era la città più industrializzata del Sud, dall’acciaio all’automobile, fino all’elettronica. Da anni è in atto un violento processo di dismissione, e per anni ci hanno raccontato la favoletta del terziario, avanzato o meno, che avrebbe sostituito l’industria manifatturiera. Così non è stato, e i nostri nuclei industriali sono ridotti a un deserto».

Quello che puoi vedere e toccare con mano a Napoli Est. Capannoni abbandonati, altri trasformati in centri commerciali, un intero quartiere, San Giovanni a Teduccio, senza più identità e prospettive. E si sorride amaro nel ricordare quei giorni del 1904, quando Francesco Saverio Nitti decise di puntare sulla zona orientale della città sotto il Vesuvio. Volle scrivere che i suoi provvedimenti erano destinati “al risorgimento economico della città di Napoli”.

La Meridbulloni di Castellammare

Anche a Castellammare di Stabia operai davanti ai cancelli. Sono gli oltre ottanta lavoratori della Meridbulloni. Stesso scenario della Whirlpool. La fabbrica, che produce viti e bulloni di alta qualità per l’industria automobilistica, non è in crisi, ma la proprietà ha deciso di chiudere lo stabilimento.

«Due giorni fa – racconta Antonio Santorelli, operaio della Fiom – ai lavoratori sono arrivate delle belle letterine di Natale: dal 2 febbraio tutti trasferiti a Torino, chi non accetta perde il lavoro». 

L’azienda di proprietà dei fratelli Fontana, l’anno scorso ha portato a casa un fatturato di 21 milioni, e profitti per 380mila euro. «Non è una crisi industriale – sottolinea Santorelli – lavoriamo con macchinari antichi e obsoleti, eppure produciamo materiali per Iveco e Ferrari, dietro c’è altro. Gli appetiti sui suoli dello stabilimento, 34mila metri quadrati a pochi passi dal porto turistico che fanno gola agli speculatori».

Voci insistenti parlano del progetto di costruire un grande albergo (gli eredi di Loris Fontana sono molto attivi nel settore alberghiero). Un progetto che va avanti da una decina di anni, e che ora il comune di Castellammare cerca di arginare vincolando la destinazione d’uso dei suoli.

Dal canto loro, gli operai presidiano la fabbrica giorno e notte bloccando i cancelli per impedire lo smantellamento delle attrezzature. Martedì pomeriggio si sono riunti con le loro famiglie per celebrare la Messa di Natale. «Grazie per essere qui, per non esservi arresi», sono state le parole del prete Gennaro Giordano.

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