- La battaglia sul ddl Zan è servita a definire la linea del nuovo Pd di Letta come partito dei diritti civili.
- A trasformare Enrico Letta da grigio politicante ad alfiere arcobaleno sono stati i cinque anni a Sciences Po, feudo americano nel cuore di Parigi.
- Nella fretta di inseguire il modello Biden, il Pd ha dimenticato che in Italia non si governa senza il consenso del Vaticano.
Con lo stop al Senato del disegno di legge Zan, Enrico Letta ha perso la prima grande battaglia che doveva servire a definire la sua visione del Partito democratico.
«Ma il paese è da un’altra parte» ha commentato a caldo il segretario. Non dispiaccia a Letta ma di tutta evidenza il paese, sulla questione come su molte altre, è diviso: da una parte chi vorrebbe maggiori tutele per minoranze sessuali spesso stigmatizzate; dall’altra i nostalgici di una famiglia tradizionale che non è mai esistita; nel mezzo tutti quelli che non sono riusciti a capire quali sarebbero state le concrete implicazioni degli articoli, quantomai vaghi, sull’identità di genere.
Ago della bilancia è stato, ancora una volta, il Vaticano, che avrebbe appoggiato una legge che sanziona le discriminazioni ma non poteva lasciarne passare una che confliggesse apertamente con la sua visione antropologica fondata sulla distinzione tra uomo e donna.
Sconfitta simbolica
Il risultato di questa sconfitta è catastrofico soprattutto sul piano simbolico, perché invece di portare a casa una legge contro le discriminazioni (crescenti) si è ottenuto ciò che gli elementi più beceri e prepotenti potranno interpretare come un “liberi tutti” di cui non si sentiva certo il bisogno.
Spostando le questioni di genere verso il centro dell’agone politico la sinistra ha preso il rischio di farne il fulcro di un aspro conflitto valoriale. Non sarebbe meglio, prima di iniziare una battaglia, assicurarsi di avere le risorse per vincerla?
Il problema di Letta non è tanto dove stia il paese, quanto dove stia il suo elettorato. Da questo punto di vita perdere una battaglia non significa necessariamente perdere la guerra.
Immolandosi sul ddl Zan, il Pd di Enrico Letta ha perlomeno chiarito quello che ambisce a essere, e gli elettori potranno giudicarlo sulla base di questo: il partito dei diritti civili.
Non cadiamo nella facile caricatura secondo cui la sinistra avrebbe barattato le vecchie battaglie sociali per le battaglie civili, o come si dice in Francia “societali”: questo baratto è un fenomeno trasversale, e la destra italiana ha mostrato di non essere seconda a nessuno nell’arte di sventolare questioni identitarie pur di non sfiorare le questioni economiche di fondo.
Nel contesto generale il margine di azione politica appare così risicato che i partiti preferiscono ripiegare su un’offerta altamente simbolica, con promesse realizzabili e poco dispendiose, sperando di uscire vincitori dalla crescente polarizzazione.
È in questo contesto che Enrico Letta ha voluto imprimere al partito una direzione nuova e più netta, proprio partendo dalle questioni di genere.
La metamorfosi di Enrico Letta
Letta. Enrico Letta. Ma ve lo ricordate dieci anni fa? Il più moderato e il più discreto dei democratici, il pontiere con il centrodestra. Ed eccolo da grigio politicante diventato alfiere arcobaleno. Cosa gli è successo in questi anni?
Le ipotesi sarebbero tante, a partire dallo smacco subito da Matteo Renzi, che apre uno scenario alla Breaking Bad. Ma non bisogna sottovalutare dove ha passato i cinque anni prima di tornare in Italia, ovvero a Sciences Po, la più internazionale delle università parigine.
Proprio da Sciences Po sono partite, negli ultimi anni, molte delle polemiche su temi come razza e genere che hanno occupato l’opinione pubblica francese, tanto che essa oggi è considerata come uno dei centri di irradiazione del pensiero post coloniale e femminista.
La borghesissima università delle élite avrebbe dunque scavalcato a sinistra la Sorbona e i suoi dipartimenti di filosofia?
Non proprio: ma di certo la massiccia presenza di studenti da tutto il mondo (oltre 40 per cento sono di origine straniera) e la vocazione a imitare le tendenze delle università più prestigiose del mondo anglosassone hanno propiziato un allineamento di temi, codici, priorità. Da cui sorge anche lo sfasamento tra la sensibilità di chi appartiene a quel mondo e di tutti gli altri fuori.
I finanziamenti americani
Non è sicuramente un caso se gli Stati Uniti, attraverso la Sciences Po american foundation, sono passati da un finanziamento di 600.000 euro nel 2017 a uno di 2,7 milioni nel 2019 e uno 3,1 milioni nel 2020, che serviranno a finanziare la nuova sede al cuore di Parigi: Sciences Po assomiglia sempre di più a un'università della Ivy League atterrata per caso in Francia, creando uno strano cortocircuito tra l’universalismo repubblicano, che appare ormai sempre più provinciale, e le politiche dell’identità americane.
Già, perché a forza di parlare di “politicamente corretto”, pro o contro, sembriamo non far caso a ciò che le élite americane hanno invece capito benissimo: non si può governare una società multiculturale senza modificare radicalmente le vecchie abitudini consolidate attorno al dominio del maschio bianco, e non si possono accogliere le minoranze nell’élite senza creare le condizioni per un loro più completo riconoscimento. Questo implica una maggiore diversità di origine culturale e una maggiore inclusività della diversità sessuale.
Sciences Po lo ha capito, e ha adattato la sua offerta: ad esempio oltre a proporre una “Advanced Certification in Gender Studies”, il suo master in Sviluppo internazionale promette una «gender-responsive rights-based approach».
Parole incomprensibili per una larga maggioranza della popolazione, che anzi suonano come uno schiaffo della casta dei mandarini a chi non può permettersi la retta di una grande école; eppure delineano effettivamente uno specifico ordine d’inuguaglianze che possono essere combattute da un’azione modernizzatrice della nuova burocrazia woke.
Per cinque anni, Enrico Letta ha vissuto nel pieno di questa temperie culturale, in quanto direttore della Paris school of international affairs (Psia) di Sciences Po dal 2015, che propone dei master per formare dei “future leaders” per il settore pubblico — fondata nel 2010, la Psia è legata a doppio filo alla Sciences Po american foundation.
Qui gli studenti stranieri sono addirittura il 70 per cento, futura classe dirigente internazionale formata nel medesimo humus franco-americano. Resta da capire, appunto, se la metamorfosi woke di Enrico Letta possa trovare una sponda nell’elettorato di sinistra italiano, che rimane (per citare Jovanotti) una grande chiesa che va da Che Guevara a Madre Teresa.
Il che, come notava il comico Valerio Lundini, implica di considerarne la curvatura, farla convessa e disporre delle acquasantiere grosse quanto il Vaticano.
Un calcolo politico
Se Enrico Letta ha l’intenzione di importare in Italia i temi del dibattito americano – che a dire il vero già percolano attraverso i social network, gli influencer, i meme – farà bene a fare due conti.
Joe Biden ha potuto costruire una piattaforma politica vincente aggregando le rivendicazioni delle minoranze perché negli Stati Uniti la somma tra minoranze razziali, minoranze sessuali, donne politicizzate, giovani e borghesia di sinistra supera di poco la metà dell’elettorato.
Inseguendo quel modello il Pd di Letta non può realisticamente auspicare il medesimo successo, poiché in Italia il calcolo fornisce un risultato molto diverso: ad esempio sono meno le minoranze razziali (che spesso non hanno accesso alla cittadinanza per votare) e sono meno le persone che dichiarano di identificarsi come Lgbt.
In compenso in Italia per essere rappresentati e per governare non è necessaria la maggioranza assoluta, e abbandonando ogni vocazione maggioritaria il Pd potrebbe forse accontentarsi di un venti, venticinque per cento dei suffragi diventando, come partito dei diritti civili, una coalizione delle minoranze assieme al ceto medio progressista.
Avrebbe così trovato un nuovo motore ideologico per riempire il vuoto lasciato dalla classe operaia. Ma soprattutto, ciò che poi conta davvero, per restare sintonizzato con “l’amico americano”.
La catastrofe del ddl Zan, tuttavia, resterà come monito imperituro contro ogni tentativo di tentare dei salti in avanti troppo bruschi.
L’aria di Parigi ha forse fatto dimenticare a Enrico Letta che a Roma vige ancora un “potere che frena” col quale deve confrontarsi chiunque aspiri alla modernizzazione del paese.
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