- La tanto attesa direzione del Pd non è stata l’Apocalisse e una volta ancora la conclusione, almeno nella forma, ha restituito quell’unanimità che in passato non sempre ha voluto dire una credibile pax interna.
- Tre note a margine: questa volta c’è stata una discussione schietta; di fronte all’avanzata della destra il problema dell’opposizione e dei rapporti tra le forze che la compongono non può essere una battuta scomposta di Beppe Grillo; nessuno ha puntato il dito sulla leadership più fresca e innovativa degli ultimi lustri.
- Non è nostalgia, solo ragionevolezza immaginare che possano ancora tenersi direzioni attese dove su punti di merito e complessi la discussione porti a sintesi migliori delle premesse incardinate da ciascuno. Ieri l’altro, per una volta, il Pd dai mille volti e dalle mille voci ci ha provato.
«Potrebbe esser peggio». «E come?» «Potrebbe piovere!» Lo scambio immortale tra Igor (Aigor) e il dottor Frankenstein (Frankenstin) creato dalla fantasia di Mel Brooks poteva adattarsi all’attesa direzione del Pd. Invece no. Sul Nazareno non è precipitata la grandine e una volta ancora la conclusione, almeno nella forma, ha restituito quell’unanimità che in passato non sempre ha voluto dire una credibile pax interna.
E allora? Allora tre note vanno riprese dal taccuino. La prima è che una discussione schietta questa volta c’è stata. Merito della segretaria per nulla reticente sulle critiche e disposta a recepirle invocando solo una dose condivisa di buona volontà a non lasciarle prevalere nel messaggio rivolto all’esterno. Tradotto: qui dentro diciamoci le cose a brutto muso e guardandoci negli occhi, ma fuori attenzione a gonfiare le vele dei nostri avversari perché sono incompetenti, arroganti e un tantino cinici.
Una cosa però la sanno fare bene ed è dominare l’agenda del discorso pubblico obbligandoci a inseguirli sui terreni a loro più congeniali. Invece quell’agenda dobbiamo governarla noi, o almeno impegnarci a farlo. Da qui le sette prove di un’estate «militante»: Pnrr, autonomia differenziata, cura della comunità, diritto alla casa, lavoro, nuovo piano industriale, emergenza climatica.
Il baricentro della nuova Europa
Seconda notazione. A nove mesi dalla sconfitta nelle urne il dato più evidente è che la destra non si è impadronita solamente del governo, ma ha occupato il “potere”. Non appaia una sfumatura, è sostanza. E se scopo della politica e dei partiti è convincere il prossimo che qualcosa è giusto o sbagliato usando un linguaggio dei fini e non solo dei mezzi la realtà ci dice che questa destra in Italia come in mezza Europa coltiva l’ambizione quei fini di cambiarli. Vasto programma, eppure ci stanno provando. Qui, in casa nostra. E a spasso per Ungheria, Polonia, Svezia, Spagna, Austria, Finlandia e Germania.
Loro vogliono spostare il baricentro politico e l’identità culturale della nuova Europa sulla frontiera di un pensiero reazionario col desiderio di infiacchire i principi scolpiti dell’Illuminismo e dello stato di diritto. Se dovessero prevalere nel voto europeo dell’anno prossimo, e di lì a qualche mese (valgano gli scongiuri) Donald Trump dovesse fare di nuovo ingresso alla Casa Bianca, è probabile che assisteremmo alla più drammatica regressione dell’Europa politica dopo il 1945.
Di fronte a questa ipotesi tutto si può sostenere meno che il problema delle opposizioni sia incarnato da una battuta scomposta del comico “elevato” a guru nella piazza pentastellata dell’altro sabato. Anche su questo la direzione ha preso le misure restituendo la polemica alla sua giusta misura.
Il punto è che recidere ogni filo nel rapporto tra le forze che oggi si oppongono alla destra in attesa che tra un anno le urne certifichino i rapporti di forza per una futura coalizione sa tanto di una miopia difficile da perdonare. L’alternativa, o la si chiami come meglio uno crede, dovrebbe avere gambe da subito, se possibile recuperando la carica espansiva del primo Ulivo coi suoi comitati popolari – letteralmente, di popolo – incaricati di dipingere a tinte colorate «l’Italia che vogliamo».
Due partiti in un corpo solo
Terza e ultima nota. Come si dirige un partito avvezzo dalla nascita a gonfiarsi delle sue divisioni finendo col ridurre la pluralità delle idee a una confraternita di potentati e correnti? E qui forse l’aspetto più rilevante della giornata. Perché nessuno – volevo ben vedere – ha puntato il dito sulla leadership più fresca e innovativa degli ultimi lustri.
Ma un paio di punti si sono fissati a partire dal bisogno di chiudere la pagina del congresso e aprire quella della direzione di una forza che chiede per primo (o prima) a chi sta al timone di indicare la rotta con la coerenza, l’ascolto, l’interesse, a far sentire l’equipaggio coinvolto e partecipe del viaggio.
Insomma, per le cose dette nessun ammutinamento è lecito, ma è proprio la coscienza che da un confronto aspro possono uscire una maggioranza e una o più minoranze, e però mai una maggioranza e un’opposizione che converrà ripartire. Perché nella seconda ipotesi l’esito è svegliarsi con due partiti in un corpo solo. E non funziona.
Non ha funzionato nel passato se quel partito ha sofferto due scissioni (e mezzo) in soli sedici anni. L’unità di un partito, quella vera, non riduce o rimuove la manifestazione della critica. Piuttosto sa come indirizzarla per farne patrimonio comune cogliendo la quota di giusto, di saggio, che alberga spesso nelle ragioni dell’altro. Non è nostalgia, solo ragionevolezza immaginare che possano ancora tenersi direzioni attese dove su punti di merito e complessi la discussione porti a sintesi migliori delle premesse incardinate da ciascuno. Ieri l’altro, per una volta, il Pd dai mille volti e dalle mille voci ci ha provato. E fosse solo per tributo a Gene Wilder e Marty Feldmann non ha piovuto!
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