La lettura dei risultati delle elezioni in Liguria va tarata sul dato dell’affluenza alle urne. Meno della metà degli aventi diritto. Forse solo sull’astensionismo ha pesato il caso Toti, che invece sembra non abbia avuto l’influenza attesa sul risultato della contesa. Una sconfitta bruciante ancorché risicata nei numeri per il centrosinistra. Un successo per il sindaco Marco Bucci, rivelatosi candidato azzeccato. Con un neo: lo smacco, ovvero la sua bocciatura (dieci punti sotto al suo avversario) nella città di Genova da lui governata.

Bene il Pd, male la coalizione di centrosinistra. Un “campo” cui si attaglia la nota metafora dell’albero circondato da cespugli. Un Pd che incassa un doppio … raddoppio: sui risultati da esso conseguito quattro anni fa nelle precedenti regionali e sul consenso raccolto da FdI. E tuttavia una indubbia sconfitta per la coalizione favorita sino a qualche settimana prima del voto. Con il tonfo del M5s sotto il 5 per cento e dei centristi superstiti al lumicino; con la sola tenuta al 6 per cento di Avs.

Il peso delle divisioni 

Inutile negarlo: si sono pagate le molteplici divisioni che hanno contrassegnato la vigilia sino al giorno precedente le elezioni. La polemica tra Giuseppe Conte e Matteo Renzi (con l’esclusione di quest’ultimo e di Più Europa), i microconflitti tra gli stessi centristi, ma soprattutto la lacerante e ultimativa resa dei conti tra Grillo e Conte. Pagata a caro prezzo dal M5s e dall’intero schieramento.

La riflessione sulla sconfitta esige che si mettano in fila le responsabilità per tirare una riga e ripartire. Quella di Beppe Grillo, confermatosi irresponsabile e vendicativo, un padre padrone che non si rassegna all’emancipazione della propria creatura. Al punto da rivendicare il diritto alla sua estinzione. Quella di Conte, la cui attenuante (appunto la sfida del fondatore) non basta a giustificare la decisione intempestiva di liquidare Grillo a quarantotto dal voto, la sua rivendicata pretesa di porre veti, il suo eccesso di tatticismo e camaleontismo, il suo attivo contributo alla ostensione dell’immagine di una coalizione divisa nel vivo della campagna elettorale.

Perché, senza almanaccare sul calcolo impossibile del valore aggiunto piuttosto che sottratto da Italia viva (chi può misurarlo con certezza?), di sicuro ha fatto danno lo spettacolo della conflittualità di chi aspirava a rappresentare un’alternativa di governo regionale. A valle di una tale debacle, il M5s è chiamato non già a una “rifondazione”, ma a una vera e propria ideazione ex novo della sua identità e ragione politica al momento decisamente oscura.

Ancora: la divisione cui ha contribuito lo stesso Renzi che, nel suo proverbiale cinismo, si è applicato a seminare zizzania esasperando lo scontro con Conte rappresentandolo perfidamente come una sfida alla Schlein e – non è da escludere – tifando appunto per la sconfitta che ne è sortita, che egli può ora raccontare come sicuro effetto della sua esclusione.

Di più: Renzi, con i suoi trascorsi, nazionali e locali, d’improvviso riconvertito, non può reiterare la sua ambiguità su questioni cruciali. Un solo esempio. È noto come egli abbia un conto personale aperto con la magistratura, ma, nel mentre il governo la attacca frontalmente per propiziare riforme costituzionali che la delegittimino, non gli è consentito di tergiversare. Se, come usa dire giustamente, l’unità dell’alternativa s’ha da fare sui temi e non sulle sigle, quale linea di frattura più dirimente tra i due schieramenti che non quella che attiene alla Costituzione che il governo vuole minare nei suoi capisaldi? Dal premierato alla separazione delle carriere dei magistrati.

Il ruolo di Schlein 

Con il senno di poi si può forse eccepire sulla candidatura di Andrea Orlando, autorevole dirigente Pd, ma percepito come figura troppo di partito e di matrice “romana” (a confronto del “civico” Bucci, nonostante organico al “sistema Toti”). Meno plausibili le critiche a Elly Schlein.

Tra i commenti, qualcuno avanza l’ipotesi che la minoranza interna al Pd potrebbe aprire le ostilità contro la segretaria. Sarebbe autolesionistico e paradossale. Su che basi politiche? Domando: c’è qualcuno che può ragionevolmente sostenere che si possa tornare alla presunzione renziana dell’autosufficienza del Pd?

La “sinistra” Schlein, sinché ha potuto, non ha semmai tenuto il punto del suo motto “testardamente unitari” e della non esclusione di alleati moderati e centristi? Ma soprattutto non erano i cosiddetti “riformisti” Pd a predicare che la priorità fosse il rafforzamento del partito rispetto alla politica delle alleanze? Dunque, d’accordo: la coalizione è ancora tutta da costruire e spetta in primis al Pd farsene carico.

Nessuno dispone di una facile ricetta, è tuttavia sicuro che la via più sbagliata sarebbe quella di farci assistere al film cento volte visto e rivisto: quello della ripresa della conflittualità tra le correnti Pd. Esso necessita di una franca e vivace discussione politico-programmatica interna da estendere poi all’intero centrosinistra, non dell’ennesima resa dei conti tra gruppi dirigenti autoreferenziali.

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