A mano a mano che si avvicina l’apertura delle urne di sabato 8 giugno, l’assillo dentro Fratelli d’Italia cresce. L’asticella è stata fissata dalla leader Giorgia Meloni su un prudente 26 per cento, e il numero appare più realistico che mai, anche se i più ottimisti sono convinti che si andrà anche qualche punto sopra.

Chi di Realpolitik si occupa nel partito di via della Scrofa, però, rimane in allerta ed è conscio che le mosse della premier siano una boccata d’ossigeno verso la scadenza elettorale. Meloni ha orientato tutte le ultime iniziative del governo al voto: il siparietto con Vincenzo De Luca a Caivano, il Cdm con un decreto per ridurre le liste d’attesa negli ospedali (anche se senza un vero impegno di spesa), l’affondo securitario sui migranti con esposto alla Dna e il viaggio in Albania per magnificare il nuovo – e ancora irrealizzato – centro per il rimpatrio.

Del resto, l’unico vero motto delle europee di Fratelli d’Italia è «Vota Giorgia», che è certamente la stella polare del partito, ma anche l’unico nome davvero di spicco nelle liste delle cinque circoscrizioni. Questo è il cruccio che serpeggia. «Meloni a parte, le liste sono deboli», sentenzia un veterano delle campagne elettorali.

In effetti, a scorrere l’elenco di nomi, pochissimi saltano agli occhi come volti noti dietro quello della leader. Ci sono quasi tutti gli eurodeputati uscenti, di cui però gli unici davvero riconoscibili sono Carlo Fidanza e Nicola Procaccini. C’è poi il jolly, un po’ ammaccato, Vittorio Sgarbi, fresco di dimissioni da sottosegretario ma comunque in lista da indipendente. Nella lista del Nord-Est spuntano la consigliera regionale veneta Elena Donazzan, che ambisce a un risultato importante per entrare nella lista dei papabili per il dopo-Zaia e la deputata trentina Alessia Ambrosi, che però è sempre più tenuta ai margini del partito, dopo gli scontri al congresso locale.

Troppo pochi big – è il timore sorto ex post – per poter sperare in un traino che non sia tutto sulle spalle di Meloni.

La strategia è stata quella di puntare all’incoronazione definitiva della leader, cercando un risultato plebiscitario in tutti i collegi, con uno slogan facile e diretto che nulla ha a che fare con l’Europa.

Il timore

Il suo exploit di più votata è considerato certo, l’interrogativo però è se basterà a portare a casa il risultato in una elezione con caratteristiche così peculiari: l’alto astensionismo (l’affluenza nelle ultime tornate si è attestata al 50 per cento) e il voto di preferenza su collegi enormi favoriscono i candidati territoriali forti con una consolidata base elettorale in regioni molto popolose, oppure quelli con grande visibilità pubblica tale da mobilitare un voto d’opinione.

Nelle ultime ore, che sono anche quelle in cui si insinuano i dubbi, emerge anche un altro timore. La Lega ha impostato tutta la sua campagna elettorale guardando al polo dell’estrema destra dell’elettorato, con l’intento di erodere il consenso di FdI proprio nella sua galassia storica. Con l’attacco al Quirinale, il candidato leghista Claudio Borghi ha strizzato l’occhio a chi mal tollera la nuova veste istituzionale di FdI.

Il generale Roberto Vannacci, invece, ha passato tutta la campagna elettorale ad ammiccare all’area postfascista, tra tricolori ostentati nei video e richiami alla X Mas. Anche Matteo Salvini, pur non candidato, non ha lesinato sforzi, sostituendosi a Meloni nel ruolo di partner italiano di Donald Trump, a sua volta in campagna elettorale negli Stati Uniti, difendendolo dopo la condanna al processo.

Proprio ieri tra i due c’è stata un’affettuosa telefonata con tanto di messaggio scritto dell’ex presidente, rilanciato trionfalmente dalla Lega. Tutte mosse che hanno indispettito gli strateghi di FdI: la Lega sta facendo campagna elettorale con argomenti che FdI e Meloni, imbrigliati dentro palazzo Chigi, non possono più usare. Ormai, però, i giochi sono fatti e la tentazione plebiscitaria di Meloni si peserà finalmente davanti all’elettorato: la vittoria relativa è certa, ma sarà la lettura sistematica del risultato a decretare se la strategia è stata quella giusta.

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