Impiegare plastiche per alimentare l’altoforno al posto del coke è una possibilità più ecologica per mantenere in attività la fabbrica in attesa che sia riconvertita con impianti più efficienti come quelli a base di idrogeno. La tecnologia – finanziata dall’Europa – esiste già e anche il fornitore di polimeri che potrebbe rifornire Taranto, ma il progetto rischia di non sbarcare all’Ilva
Sostituire il coke come combustibile per alimentare gli altiforni di Ilva con i polimeri di plastica riciclata. La tecnologia c’è già, il fornitore pure: manca solo il via libera di Ilva per innestare sulla produzione siderurgica della fabbrica in crisi un’alimentazione transitoria che potrebbe contribuire a ridurre le emissioni inquinanti da un lato e permetterebbe allo stato di risparmiare denaro dall’altra.
La tecnologia non è nuova: l’utilizzo di plastiche che hanno difficoltà a essere riciclate altrimenti, ridotte in compound granuloso, è la norma già in diverse realtà in Europa, per esempio alla Voestalpine di Linz. L’ambizione ora è di portare sempre di più questo combustibile complementare anche a Taranto.
Per farlo, sono disponibili addirittura dei fondi europei, visto che la tecnologia è considerata un Bat – Best available technology – dall’Unione europea e in quanto tale rispetta i criteri necessari per il finanziamento tramite Pnrr.
Un’occasione che ha colto la Unità di misura di Gianluca Moro, imprenditore del settore dei rifiuti, che con la sua azienda ha ottenuto da un bando del ministero per l’Ambiente 14 milioni di euro per la realizzazione di un impianto per la produzione del materiale. La fabbrica è praticamente pronta e la produzione del combustibile che potrebbe essere destinato all’Ilva potrebbe iniziare a fine del 2024.
La riduzione delle emissioni
«Il nostro prodotto – dice Moro – permetterebbe di ridurre del 30 per cento le emissioni prodotte dall’altoforno dove viene impiegato». In effetti, spiega Paolo Matteis, professore del Politecnico di Torino, «i polimeri possono sostituire solo una parte del combustibile usato tradizionalmente nel siderurgico», visto che «il coke ha anche un ruolo strutturale nell’altoforno. Le diverse combinazioni di combustibili alternativi possono però ridurre le emissioni».
Insomma, ci sarebbe la possibilità di mantenere gli altiforni ancora attivi in funzione inquinando di meno in attesa di una fabbrica che sfrutti energie meno inquinanti. Anche perché il governo non ha ancora deciso una linea sul futuro della fabbrica e il settore siderurgico non conosce ancora il suo futuro a lungo termine, su cui inciderà pesantemente l’esito delle prossime elezioni europee: «Dipende anche da come l’Ue gestirà il prezzo delle emissioni e le sovvenzioni al settore» continua Matteis. L’impiego dei polimeri contribuirebbe così a guadagnare tempo per la decisione sul futuro dell’Ilva. Spegnere e riaccendere gli altiforni ha un costo non secondario e la produzione al di sotto della resa ottimale dell’impianto sta già mettendo a rischio la competitività sul mercato del principale polo siderurgico italiano.
«Una soluzione transitoria in linea con l’indicazione dei governi europei di procedere nella direzione della decarbonizzazione della siderurgia» dice ancora Matteis. Dal sindacato spiegano che è benvenuta ogni tecnologia migliorativa, ma il futuro della fabbrica resterà appeso finché la politica non prenderà in mano la situazione: «Gli strumenti ci sono, serve una visione a lungo termine» dice Valerio D’Alò della Fim.
L’attesa è tutta per l’incontro con il governo del 20 dicembre, quando i rappresentanti dei lavoratri si aspettano che emergano chiaramente almeno le intenzioni del governo, cioè se proseguire a ad assecondare Arcelor Mittal o intervenire con un impegno politico: resta il problema della resa dell’impianto, che per sfruttare le economie di scala deve produrre molto più di oggi. Anche Rocco Palombella della Uilm sottolinea che «può essere una buona soluzione transitoria, per sperimentarlo al meglio bisognerebbe riavviare l’altoforno 5».
Ma per lo Stato l’impiego dei polimeri avrebbe anche vantaggi economici. Per esempio per quanto riguarda l’acquisto di certificati di Co2 per compensare il prezzo del carbonio emesso, ma anche perché diminuirebbero i pagamenti che ogni anno fluiscono da Roma verso Bruxelles per la quantità di plastica che non riusciamo a riciclare.
Una decisione approvata nel 2020 prevede infatti che sia applicata un’aliquota sul peso dei rifiuti di imballaggio non riciclati pari a 80 centesimi per chilogrammo: una regola – per il momento in vigore in versione smussata, a 0,45 euro al chilo – che secondo dati Greenpeace è valsa nel solo 2021 800 milioni di euro sottratti alle casse dello Stato. «Con l’impiego dei nostri polimeri potremmo risparmiare 240 milioni di euro l’anno» dice Moro.
E poi, la stessa tecnologia in Ilva viene già utilizzata da Iren, che grazie a un accordo con I.Blu l’ha portata a Taranto il mese scorso per sostituire, in base a notizie di stampa, 50mila tonnellate l’anno di polverino di carbone. L’investimento di Unità di misura da 28 milioni di euro, però, ha dalla sua l’efficienza: mentre la friulana I.Blu produce a San Giorgio di Nogaro, Rovigo e a breve a Scarlino, l’azienda di Moro è a Taranto e il trasporto del materiale in fabbrica genererebbe un impatto ambientale inferiore.
Unità di misura impiegherà 50 persone: il progetto partirà comunque, a prescindere dal destino di Ilva. Ci sono altre realtà da rifornire con il granulato. Ma Taranto, che avrebbe la produzione letteralmente dietro casa, rischia di non approfittarne, se il governo non coglierà l’opportunità.
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